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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/350

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Detto c’hebbe cosi la Dea, disparse,
     E ’l sonno lasciò lei libera, e viva.
     E tal fu la pietà, che ’l petto l’arse,
     Che lasciata di se la piuma priva,
     Piegate le ginocchia ov’ella apparse,
     Prega di cor la gloriosa Diva,
     Che quel, c’ ha il sogno à lei mostrato, approvi,
     E al mal, che non vuol far, rimedio trovi.

Trova sua confidente una ostitrice,
     E à pien del suo pensier la rende accorta,
     Che servia anchor col latte di nutrice,
     E lei vuol sola al letto arbitra, e scorta.
     Crescon le doglie, e al giorno almo, e felice
     Dal chiostro oscuro il peso si trasporta.
     Figlia si trova, e la nutrice mente,
     E fa creder, ch’è maschio al suo parente.

Il padre su’l altar fa batter l’ale
     Al foco, e poi da l’avo Ifi l’appella.
     La madre è lieta, poi che il nome è tale,
     Che si conviene à l’ huomo, e à la donzella.
     Ifi la madre sua propria, e carnale
     Lascia, et ha da la balia la mammella.
     La qual lontan dal padre la fanciulla
     Tutti gli anni nutrì, ch’aman la culla.

Con pia fraude vetar l’infame oltraggio,
     E fero al padre rio pietoso scorno.
     E già nel mese il qual precede al Maggio
     Dal dì, che ’l suo natal diede Ifi al giorno,
     Tredici volte il pin, l’abete, e ’l faggio
     Havean di nove chiome il capo adorno,
     Et ei nel volto, ù fer le gratie il nido,
     Havea Venere impressa, e ’l suo Cupido.

Pinga un’imagin Zeusi, un’altra Apelle;
     E sian Venere vergine, e Narciso;
     E ignude mostrin le lor membra belle,
     E non manchi al lor corpo altro, che ’l viso:
     Se l’aria à lor daran, che fer le stelle
     Piover sopra costei dal paradiso,
     Ognun dirà Narciso, e Citherea
     Altro viso, che quel non vi volea.

Da poi, ch’à l’uso human la Dea Sicana,
     Sopra duo lustri diè la terza arista,
     Dal dì, che la sembianza alma, et humana
     Il mondo allegro fe de la sua vista,
     Il padre Litto la sua mente spiana,
     E rende la consorte afflitta, e trista,
     Mentre le dice allegro il core, e ’l ciglio,
     C’ha dato moglie à lei, che crede un figlio.

Ho dice, al figliuol nostro hoggi trovata
     Una sposa leggiadra, accorta, e honesta,
     Nobil secondo il nostro stato, e ornata
     D’ogni maniera affabile, e modesta.
     È questa Iante di Teleste nata,
     La cui bontate à tutti è manifesta.
     Sì c’ habbi l’occhio à quel, che si richiede,
     Che tosto esseguirem la data fede.

L’afflitta Teletusa il volto lieto
     Mostra, ma dentro il cor sente la doglia.
     Che teme, ch’à scoprir s’habbia il secreto,
     Ch’ascoso stà sotto mentita spoglia.
     Pur con giudicio subito, e discreto
     Dice, ch’alquanto anchor pensar vi voglia.
     Che ’l figlio è delicato, e desioso,
     E ’n troppo verde età vuol farlo sposo.

Stassi nel suo parer costante Litto,
     E vanme in tanto, ove il negotio il chiama,
     E lascia la moglier co’l core afflitto,
     Che d’allungar le nozze intende, e trama.
     E ricorda à la Dea santa d’ Egitto
     Quel, che già le promise, e quel, che brama,
     E co’l ginocchio humil, co’l cor intenso,
     Dona il foco à l’altar co’l sacro incenso.

Ifi, se ben sapea, ch’era donzella,
     Non restava però d’arder d’amore
     De la promessa à lei sposa novella,
     E molto pria comune era l’ardore.
     Era ciascuna à maraviglia bella,
     Et ambe eran d’età su’l più bel fiore.
     E da primi anni conversando insieme,
     Reciproco l’amore era, e la speme.