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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/349

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L’altra ragion, che non diè maraviglia
     À l’isola Dittea, che sotto il monte,
     C’ ha il capo di leon, la stanca figlia
     Si fosse assisa, e trasformata in fonte,
     Fu, ch’ in una plebea casa, e famiglia
     Donna senza cangiar l’humana fronte
     Sforzò nel regno stesso la natura,
     Come piacque à la Dea, che n’hebbe cura.

Hor se’l fonte Bibleo novo, e fecondo
     À tutto il mondo maraviglia porse,
     Eccetto à Creta, fu, che tutto il mondo
     Non vide quel, che Creta sola scorse.
     Per isgravar tre donne d’un gran pondo
     Iside à tempo apparve, e le soccorse:
     La qual fe si gran dono à una fanciulla,
     Che Creta più non si stupì di nulla.

Vivea nel territorio allhor di Festo
     De la plebe un buon’ huom nomato Litto.
     Fù d’ incolpata vita, accorto, e honesto,
     Ma far per povertà volle un delitto.
     Hor quanto fu incolpevole nel resto,
     Tanto questo à gran biasmo gli fu scritto,
     Poi che quel mal co’l tempo venne in luce,
     Al qual la povertà volle esse duce.

Vedendo grave à la sua moglie il fianco
     Con questo suon l’orecchie le percote,
     Due voti io bramo: un faccia il tuo sen franco
     Senza sentir le dolorose note;
     L’altro è, che ’l parto tuo non habbia manco
     Quel don, che ’l pel donar suole à le gote.
     E come il terzo lustro habbia fornito
     Sia buon per prender moglie, e non marito.

Tu sai di quanto peso è una citella,
     Quanto la povertà ne da tormento.
     Hor se pur vuol la sorte iniqua, e fella,
     Che ’l parto non prometta il pelo al mento;
     (Perdonami, pietà) di lei rubella
     Fatti, e fa il lume suo del lume spento.
     E giunto à questo segno il parlar frange,
     E chi parla, e chi ascolta, il danna, e piange.

Prega allhor Teletusa il suo consorte,
     Che non sl fondi in si misera speme,
     Che senza dare à la lor figlia morte,
     Ben passeran le lor fortune estreme.
     Stà l’huom nel suo parer costante, e forte,
     E mentre il vuol ridir, piangono insieme.
     Prega ella, che ’l suo mal vede vicino,
     L’Egittia Dea del suo favor divino.

Mentre la mezza notte à cader mena
     Le prime stelle apparse in oriente,
     E ’l sonno à gli animai lo spirto affrena,
     Onde altri non intende, altri non sente;
     La donna vinta da l’acerba pena
     Al sonno diè l’affaticata mente.
     E vide, ch’al suo letto Iside apparve,
     Ó se pur non la vide, almen le parve.

De gli ornamenti regij ella era adorna,
     Che dan le cerimonie altere, e sante:
     Le spighe, e l’oro, e le lunari corna
     L’ornan la fronte, e ’l suo nobil sembiante.
     Anubi il can fedel seco soggiorna,
     Che suol custodia à lei star sempre avante.
     V’è Bubasti la Dea, v’è quel bue santo
     Api, c’ha cosi vario, e bello il manto.

V’è quel, ch’a labro suol tenere il dito,
     Che mostra altrui, che pian l’aura respiri.
     V’ ha anchor gli usati sistri, e v’ ha il marito,
     Il non à pien giamai cercato Osiri.
     La peregrina serpe il sacro rito
     Non vuol, che senza lei s’osservi, e miri,
     Hor à la mente sua qual fosse desta
     La Dea con questo suon si manifesta.

Ó Teletusa mia devota, e fida,
     Da parte poni ogni timore, e noia,
     Ne ti curar farti al marito infida,
     Quale il parto si sia, non far, che muoia.
     Son Dea, ch’à chi nel mio poter confida,
     Aiuto soglio ogn’hor portare, e gioia.
     Ne d’haver ti dorrai l’altare ornato
     Di lume, incenso, e mirra à un Nume ingrato.