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Patisce dal digiuno, e perde il sonno,
E ’l dolor sempre in lei si fa più intenso.
Tal, che le membra afflitte andar non ponno,
Come comanda, e vuol l’ardore immenso.
Tanto, che ’l senno al fin non è più donno
De la ragion, ma si da in preda al senso.
E scopre, s’altri ben non gliel dimanda,
L’ardor de la sua mente empia, e nefanda.
Stride, e chiama il fratello ingiusto, et empio,
E chiede, e vuol, ch’ogn’un le dia ragione.
E fa stupir del suo nefando essempio
Le Bubaside nuore, e le matrone.
L’intelletto perduto, e ’l duro scempio
Ben mover à pietà può le persone.
Ma il non concesso amor le da tal fregio,
Che se ben n’ han pietà, l’hanno in dispregio.
Con quel furor, che le baccanti vanno
Di pampino, e di frondi ornate, e d’hasta,
Quand’honor fanno à Bacco ogni terz’anno,
E la mente han dal vin corrotta, e guasta;
Stridendo ella ne và carca d’affanno
Senza la mente haver saggia, ne casta.
E scopre con quei modi il suo dolore,
Che si conviene à chi del senno è fuore.
Già l’armigero Lelega lasciato,
E la Caria s’havea dietro à le spalle,
Crago havea in Licia, e Limire passato
Di Xanto anchor la fruttuosa valle;
E co’l piè proprio il suo mortal portato
Havea per aspro, e faticoso calle,
Fin dove la Chimera fa quel monte,
C’ ha di leon la mostruosa fronte.
Passato il monte, che ’l supremo aspetto
Ha d’un crudel leon, che ’l foco spira,
E c’ ha di capra il pel, c’ ha sotto al petto,
E d’un crudo dragon la coda agira;
Si dà fuor de le selve al verde letto
Dal camin stanca, dal dolor, da l’ ira;
E ben, che dia riposo al carnal manto,
Non per questo può darlo al duolo, e al pianto.
Cercar l’accorte Naiade sovente
Di tor l’afflitto corpo à l’herbe, e à fiori,
E dar conforto à la stordita mente,
E pio rimedio à i desiati amori.
Giace ella muta, stupida, e dolente,
E gli occhi un rio perpetuo spargon fuori;
E mentre in pianto il duol si disacerba,
S’ irrigan del suo pianto i fiori, e l’herba.
Le Naiade, vedendo in tutto privo
Di forza il corpo suo languido, e stanco,
Per fare il nome eternamente vivo,
Dov’ella stese il travagliato fianco,
Fer del suo pianto il copioso rivo
D’onde abondar, che mai non venner manco,
Sopposero al suo pianto una gran vena
D’onde, che fosse ogni hor fertile, e piena.
Qual de la scorza incisa esce la pece,
Qual de la terra gravida li bitume,
Qual l’onda, che già neve il verno fece,
L’Austro co’l caldo Sol fonde, e consume:
Tal la misera Bibli si disfece,
E ’l pianto co’l sudor cangiolla in fiume.
Ritien la fonte il nome, e quelle valli
Con puri irriga, e liquidi cristalli.
La fama de l’ ingiusto, et empio affetto,
Onde Bibli fratel tentato havea,
E del suo trasformato in fonte aspetto,
Che ’l sorso al Licieo rustico rendea,
Tutto maravigliar fe il mondo, eccetto
La donna, e l’huom de l’ isola Diteta.
Per più ragioni il bel regno di Creta
Maraviglia di lei non hebbe, ò pieta.
La prima fu, ch’ogn’un sapea del regno
L’odio, ch’ al padre havea, l’alto motore.
E tenean certo, che ’l celeste sdegno
Havesse infuso in lei l’ ingiusto ardore.
Ne men n’hebbe pietà per l’atto indegno,
Che fe Mileto contra il lor Signore,
Che vedendolo infermo, s’era armato
Per torre il regno al suo proprio cognato.