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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/354

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Qui pose fine à suoi preghi devoti
     La madre ver la Dea non senza pianto.
     E in segno, che seguir doveano i voti,
     Tremò del sacro altare il marmo santo.
     Lasciar gli stupefatti sacerdoti
     De sacri carmi il glorioso canto.
     Tremar del tempio le gran porte, e i palchi,
     E ’l suon dier fuora i sistri, e gli oricalchi.

L’argento, ond’ha la Dea la testa adorna,
     De la Luna imitar volle l’essempio,
     E venner luminose ambe le corna,
     E ’l lume lor mandar per tutto il tempio.
     La madre à la magion non certa torna
     Del tutto di fuggir l’occulto scempio.
     Pur dell’augurio buon l’alma ha più lieta,
     E spera più ne la divina pieta.

Ifi segue la madre, e ’l passo molto
     Move maggior del solito costume,
     Et è più grande alquanto, e non ha il volto
     Tanta delicatezza, e tanto lume.
     Et ogni membro suo più forte, e sciolto
     Sente, e volge à la madre il motto, e ’l lume.
     Et ode, come il suo parlar mosso have,
     La voce più robusta, e men soave.

La madre la sonora ode favella,
     E incontra il guardo con la sua pupilla,
     E vi trova quel ben, che la donzella
     Suol ritrovar nella viril favilla.
     La fronte sua, ch’à l’huom parria men bella,
     À lei par più felice, e più tranquilla.
     E mentre il guarda ben dal sommo al fondo,
     Men pien ha ’l petto, e ’l crin corto, e men biondo,

Mentre stupiscon, lor l’orecchie fiede
     Un suon, che vien da l’aere in queste note.
     Non vi rallegri il cor timida fede,
     Ma l’opre sante mie rendete note.
     Come vero fanciullo esser si vede
     Ifi, và con parole alme, e devote
     Al tempio con la madre, e la nutrice,
     E paga il voto, e ’l suo miracol dice.

Palesa à sacerdoti il suo don fido,
     E pon l’asse à l’altar co’l carme scritto.
     Nel tempio il sacerdote alza co’l grido
     Il raro don, che fè la Dea d’Egitto.
     La fama andò co’l vol di lido, in lido,
     E mosse tutta l’isola à quel dritto.
     E d’ogn’intorno il mondo anchor vi mosse,
     E voller, che quel dì solenne fosse.

Intanto suona à Litto un’ altro carme,
     Dove in disparte à l’opra intende agreste.
     Non mover dice più timido l’arme,
     Ne l’alme, che ’l tuo sangue incarna, e veste;
     Fà, che à soffrir la povertà ben t’arme,
     Ne diffidar de la pietà celeste.
     Loda de la tua moglie il santo zelo,
     Co’l gran favor, che l’ ha fatt’ hoggi il cielo.

Attonito il buon’ huom del pio consiglio,
     Che parla à lui da la superna parte,
     China il ginocchio, alza la mano, e ’l ciglio,
     E rende gratia al cielo, e poi si parte.
     Nel tempio poi, dov’è la moglie, e ’l figlio,
     Ode il divin favor parte per parte.
     E mentre ogn’un la Dea loda co’l canto,
     Pentito, e chin la loda egli col pianto.

L’altro mattin dopo il solenne giorno
     Havea già il Sole il mondo al mondo aperto,
     Quando il notturno quei lasciar soggiorno,
     Ch’ à l’amor dar dovean l’ultimo merto
     Tosto, che ’l carro suo di stelle adorno
     La notte havesse à gli huomini scoperto:
     E pregaro Himeneo, Venere, e Giuno
     D’ogni favor più proprio, e più opportuno.

Giunone, et Himeneo con Citherea
     Lasciar quel giorno il mondo de le stelle,
     E fè risplender l’una, e l’altra Dea
     Con Himeneo le più chiare facelle.
     Nel letto, che lo sposo usar solea,
     Fer d’ambi entrar le membra ignude, e belle.
     E co’l favor de l’alme elette, e sante,
     Ifi godè fatt’huom la bella Iante.