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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/353

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Gli sposi aman veder l’ardenti stelle,
     Tosto, che l’alba desiata arriva,
     Per godersi le membra amate, e belle,
     Chi de l’amato suo, chi de la diva.
     Sol io, misera me, non son di quelle,
     C’habbia l’aria à bramar del giorno priva.
     Ma pregherò, che ’l Sol più tempo aggiorni,
     Perche da me medesma io non mi scorni.

Ch’oltre, che ’l finger mio sarà scoperto,
     Non serverà la fè, c’hor mi mantiene,
     C’hor, che ne spera l’amoroso merto,
     M’ama, e desia d’unirsi à tanto bene.
     Ma se l’inganno mio le sarà certo,
     Non fonderà più in me l’amata spene.
     Ne vorran le sue gratie alme, e divine
     Amar senza speranza, e senza fine.

Pronuba Giuno, e voi sacri Himenei,
     À che fin concorrete al nostro invito,
     Poi che sposo io non son per menar lei,
     Anzi noi ce n’andiamo ambe à marito?
     Ó superna pietà, superni Dei,
     Porgete aita al mio duolo infinito.
     E se rimedio i miei desir non hanno,
     Fate cadere in me l’ultimo danno.

Con questi, et altri assai gridi, e lamenti
     Seguiti da le lagrime, e dal pianto,
     Sfogava l’una sposa i suoi tormenti:
     L’altra era ne l’amor calda altrettanto;
     Ma non si dolea già con mesti accenti,
     Anzi attendea quel dì beato, e santo;
     Che non sapendo il mal, ch’à l’altra preme,
     L’amor pascea con la creduta speme.

Sol dello Dio doleasi illustre, e biondo,
     Che troppo trattenea ne l’aere il giorno:
     Biasimava poi la Dea, ch’adombra il mondo,
     Che troppo pigra già rotando intorno.
     Et attendea quel dì grato, e giocondo,
     Che con lo sposo far dovea soggiorno.
     E chiamava Homeneo con quello affetto,
     Che si richiede à tanto almo diletto.

Ma se la bella Iante il Sole accusa,
     Che troppo tardo al fin del giorno giunge;
     L’incolpa la dolente Teletusa,
     Che troppo i suoi cavalli affretta, e punge:
     E cerca tuttavia novella scusa,
     Che l’aiuti à menar le nozze lunge.
     Finge hor, che’l finto maschio alcun mal punga,
     Hor con augurij, e sogni il tempo allunga.

Ma già gli augurij, i sogni, e ’l corpo afflitto,
     Et ogni altra materia di bugia
     Tutta havea consumata, e ’l dì prescritto
     Esser dovea ne l’alba, che venia.
     Ricorre al tempio à l’alma Dea d’ Egitto,
     Et ha la mesta figlia in compagnia,
     E chinata il ginocchio, e sparsa il crine,
     Cosi prega le menti alte, e divine.

Ó santa Dea del Paritonio lido
     Amica, e de la torre alta di Faro,
     E del bel regno, ov’ ha quel fiume il nido,
     Che và per sette bocche à farsi amaro;
     Tu sai quanto ver te lo spirto ha fido,
     Tu, che l’ interno cor vedi si chiaro,
     Se ’l male è giunto à me dal tuo consiglio,
     Provedi à me d’aiuto, e al finto figlio.

Quando per tua pietà ti concedesti
     Con questi suoni in sogno al mio pensiero,
     Conobbi queste insegne, e queste vesti,
     E le lucide corna, e ’l cane altero,
     La spiga, e l’oro, e ’l serpe, e tutti questi
     Numi, che ’l tuo poter mostrano intero.
     E al mio marito incauto il lume tolsi,
     E le tue sante note esseguir volsi.

Costei, ch’innanzi à te la luce gode,
     Per lo consiglio tuo spira, e favella,
     Se punita io non son de la mia frode,
     Vien da la tua ver me propitia stella.
     Hor questa, che ti rende honore, e lode,
     Salva dal mal, che l’ange, e la flagella.
     Tu la salvasti già, salvala anchora,
     Ne voler, ch’ io per obedirti mora.