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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/360

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E questa sposa anchor, c’hoggi vi chieggio,
     Finiti gli anni suoi giusti, e maturi,
     Verrà à render tributo al vostro seggio,
     À star ne’ vostri regni ombrosi, e scuri.
     Con quella riverenza, e honor, che deggio,
     Con tutti i preghi, e tutti gli scongiuri,
     L’uso chieggio di lei sol per qualch’anno,
     Si ch’io possa dar requie à tanto affanno.

E se ’l fato non vuol, ch’ella ritorni
     À goder meco l’aura aperta, e viva,
     Gli ascritti à lei da la natura giorni,
     Onde il serpe, e ’l velen la rendè priva:
     Non vò, che per celest’occhi il Sol più aggiorni,
     Non vò partir da la tartarea riva.
     Se ridar non la vuol la fatal sorte,
     Godete pur di due l’alma, e la morte.

Spiega con tal pietate il suo concetto,
     E ’l suon con tal dolcezza v’accompagna,
     Ch’al crudo inferno intenerisce il petto,
     E non meno di lui se’n duole, e lagna.
     Ogni alma essangue ascolta il caldo affetto,
     E di pianto infinito il volto bagna.
     Tantalo per udire alza la fronte,
     E sprezza il faggitivo arbore, e ’l fonte.

L’eterno d’ Ission giro, e flagello
     Pon fine al suo rotare, e tace, et ode.
     Per lo canto ascoltar l’avido augello
     À l’ infelice Titio il cor non rode.
     Lasciando ogni Belide il suo crivello
     Piange del mal d’Orfeo, del canto gode.
     Sisifo ascolta affaticato, e lasso,
     Assiso sopra il suo volubil sasso.

Ogni Furia infernal non men si dolse,
     Non men sparse di pioggia i serpi, e ’l manto.
     E potè tanto il suo cantar, che tolse
     À gli occhi de l’Erinni il primo pianto.
     Proserpina piangendo il grido sciolse,
     Per impetrar mercede al dolce canto
     Da Pluto, e scorge, che ’l divin poeta
     Non meno ha il pianto in lui mosso, e la pieta.

La moglie preghi porge al suo marito,
     Che voglia compiacer al dolce accento.
     Pluton, c’ha il cor commosso, e intenerito
     Dal grato suon del metrico lamento,
     Vuol, ch’un carme sì raro, e sì gradito
     De l’ infernal favor torni contento.
     Et è la virtù sua di tanta forza,
     Che lo sdegno infernal commove, e sforza.

Chiama colei Pluton, che stava anchora
     Fra l’ombre nove, e al suo sposo la rende,
     Con legge tal, che fin, che non è fuora
     Del regno, dove il dì mai non risplende,
     Gli occhi non volga indietro in ver la nuora
     D’ Apollo, se là sù goderla intende:
     Ma che ’l fato la danna al nero fiume,
     S’ei volta per l’inferno adietro il lume.

Per uno stretto calle, alpestro, et erto
     Orfeo si drizza, e lei co’l carme invita,
     Che seco à rigoder torni quel merto,
     Che suol tanto bramar chi si marita.
     Eran quasi vicini al giorno aperto,
     Quand’ei si ricordò de la ferita,
     Che tarde à lei facea mover le piante,
     Secondo ei vide andarla à Pluto avante.

E non si ricordando, che la luce
     Voltar mai non dovea per l’aere tetro,
     Senza punto obedir l’ infernal Duce,
     Volle veder s’era restata in dietro.
     Subito à Stige il fato la conduce,
     Et ei comincia il doloroso metro;
     Volle abbracciarla cupido, e l’avinse
     Più volte, e sempre l’aere avolse, e strinse.

Nulla si duol de la seconda morte
     La donna, ch’à l’inferno la richiama.
     Ne giusto è, che si doglia d’un consorte,
     Che lei sopra ogni cosa ammira, et ama.
     Hor come vuol di lei la fatal sorte,
     Se ne ritorna al mondo, che la brama.
     Disse l’estremo Vale al centro intesa
     Si lunge, che da lui fu à pena intesa.