Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/361

Da Wikisource.

Non meno si stupì del doppio fato
     Orfeo, che diè la moglie al regno basso,
     Pria quando il piè dal serpe hebbe piagato,
     Poi quando ei volse à lei lo sguardo, e ’l passo,
     Di quel, che strascinar vide legato
     Cerbero per lo mondo, e venne un sasso:
     Che ’l veder fare al Can trifauce forza
     Gli fè per lo stupor cangiar la scorza.

Stupido venne Orfeo non altramente
     Di quel, ch’Oleno già venne, e Letea,
     Quando disse il marito esser nocente
     Di quel, che fatto error la moglie havea,
     Che ’l corpo immarmorar, perder la mente
     Ne l’altera montagna humida Idea.
     Sopra d’ogni alma Dea disse esser bella,
     Per dare à se, et altrui forma novella.

Com’ei ritorna in se, drizza la fronte
     Un’altra volta à la tartarea sede,
     Ma fu ripreso al fiume di Caronte,
     Ne pose mai ne l’altra ripa il piede.
     Ei canta, e suona, e fa d’ogni occhio un fonte,
     Ne quella, che vorria, può havere mercede.
     Può ben mover co’l suon l’ inferno à pieta,
     Ma non racquistar lei, che ’l fato il vieta.

Più giorni à quelle ripe egli si tenne
     Pregando ogn’hora il passator del porto;
     Ne Cerere, ò Lieo giamai sovenne
     L’afflitte fauci sue d’alcun conforto.
     Poi ch’à l’ultimo prego egli pervenne,
     Lasciò dolente l’aere oscuro, e morto.
     E detto de l’inferno il male estremo
     Al monte Rodopeo pervenne, et Hemo.

Dal Pesce nel Monton tre volte ascese
     Per dar la primavera Apollo al mondo,
     Dal dì, che lasciò il basso aereo paese,
     E ritornossi à l’aere almo, e giocondo:
     Ne mai beltà di donna intanto il prese,
     Ne volle à l’Himeneo passar secondo.
     Arse di lui più d’una, e ’l prego sciolse,
     Ma tutte ei le scacciò, ne unir si volse.

Prima, perch’egli fu molto infelice
     Ne la prima consorte à cui s’avinse:
     Dapoi, perchè promise ad Euridice,
     Quando il nodo d’amor seco lo strinse,
     Ch’altra donna non mai faria felice
     Con la beltà, ch’Apollo in lui dipinse.
     Hebbe le spose tutte à sdegno, e noia,
     E la venerea lor dolcezza, e gioia.

Molte per le bellezze uniche, e sole,
     C’hebbe da sì bel Dio, da tanta madre,
     Desiderar da lui diletto, e prole
     De l’ istesse bellezze alme, e leggiadre.
     Molte altre da le belle alte parole
     Vinte, che già placar l’ inferne squadre,
     Per haver prole, in quel fondar la speme,
     Che sì dolce tessea le note insieme.

Ma le voglie ver tutte hebbe rubelle,
     Per quella fè, ch’à la consorte diede.
     Ch’egli altramente (perche le donzelle
     Soglion del primo ben far qualche fede)
     Una amata n’havria de le più belle,
     Per alzar l’alma à la superna sede,
     Per darsi à la bellezza eterna, et alma,
     E la prima cagion goder con l’alma.

Ma pur per mezzo loro ei non intende
     D’alzarsi à le bellezze alte, e beate.
     E, perche mentre l’huom con gli anni ascende,
     Nel più bel fior de la sua verde etate,
     Quel raggio di bellezza in lui risplende,
     Che può à la prima alzare alma beltate;
     Fece de gli occhi suoi scala, et obbietto
     De l’huomo il giovinil più vago aspetto.

E così à la moglier la fè mantenne,
     Che d’altra donna mai poi non fè stima.
     E dal bel pueril quel raggio ottenne,
     Che potea alzarlo à l’alta cagion prima.
     Onde fece dapoi batter le penne
     À la sonora sua felice rima
     In lode di quel bel, che stà raccolto
     Ne l’huom mentre ha anchor molle, e dubbio il volto.