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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/362

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E fu cagion, che in Tracia il germe humano
     Prese ad amar ne l’huom l’eta più acerba.
     In cima d’un bel colle era ml bel piano
     Dipinto, e tutto pien di fiori, e d’herba;
     Ma il folto ombroso bosco era lontano
     Del faggio, e de la quercia alta, e superba:
     D’ogni pianta la terra ivi era sgombra,
     E ’l poeta divin non v’havea l’ombra.

Ma come à dolci nervi il canto accorda,
     E l’arco in sù, e ’n giù fere, e camina;
     E de la grave, e de l’acuta corda
     Sentir fa l’harmonia dolce, e divina;
     D’esser la selva stabile si scorda,
     Ogni arbor per udir l’orecchie inchina.
     Si spinge à poco à poco il bosco avante,
     E verso il dolce suon move le piante.

La Quercia spatiosa, e ’l Cerro altero,
     Co’l Rovero al bel suon drizza la fronte.
     La molle Tiglia, il Faggio, il Pruno, e ’l Pero,
     E le sorelle selve di Fetonte.
     L’arbor, che ’l fior suo virginale intero
     Salvò da lui, ch’ alluma ogni orizonte,
     Diede al bel suon l’orecchie illustri, e caste,
     Co’l frassino superbo, utile à l’haste.

Portaro anchora il Platano, e l’Abete
     Con l’Elce à quel camin l’altera fronde.
     Il Salce, che patir non può la sete,
     Ch’ama di star co’l Loto appresso à l’onde;
     L’Acero, ne le cui parti secrete
     Tanti diversi, e bei colori asconde,
     Co’l sempre verde Bosso, e co’l Mirico
     V’andaro, e dopo Mirto, il Gelso, e ’l Fico.

L’Hedera flessuosa, e ’l molle Acanto,
     La pretiosa vite, e l’Olmo, e l’Orno,
     E la Palma, il cui ramo altero, e santo
     Circonda al vincitor le tempie intorno,
     Corsero à dar l’orecchie al dolce canto
     Del gran figliuol del formator del giorno.
     Vi corse anchor co’l crin levato, et hirto
     Il Pin, che fu pur dianzi humano spirto.

Ati un fanciullo Frigio accese il petto
     À Cibele, à la madre de gli Dei.
     E poi che venne al coniugal diletto,
     Che ’l fin dolce d’amor gusto con lei:
     Gli fu da l’alma Dea più volte detto,
     Non goder mai connubij altri, che i miei,
     Se ’l mio sdegno fuggir brami, e ’l tuo danno,
     Non fare à l’amor mio furtivo inganno.

Promise il bel garzon su la sua fede
     Di non venir con altra al dolce invito:
     Ma Sangarida ninfa un giorno vede
     Un volto sì giocondo, e sì gradito;
     Dopo infinite offerte al fin gli chiede
     Quel, che bramar si suol più dal marito.
     Rompe ei la fede à la celeste madre,
     E gode le sue membra alme, e leggiadre.

Subito assal la Dea l’ ira, e lo sdegno,
     E fa, che l’implacabile Megera
     De lo Stigio furor sparge l’ ingegno
     D’Ati, e fa, che si crucia, e si dispera.
     Cerca egli furioso il Frigio regno;
     Vinto al fin da la doglia insana, e fera
     Priva co’l crudo acciar se di quel bene,
     Onde l’humana specie si mantiene.

Come s’è fatto Eunucho, il furor cresce,
     Si getta giù d’un monte, e non s’atterra,
     Che la Dea, che ’l cader vede, e gl’ incresce,
     Per sostenerlo in aere il crin gli afferra.
     In tanto di due piedi un sol tronco esce,
     Che s’allunga ogn’hor più verso la terra,
     Dove una sol radice al suol s’apprende,
     Che dritta sino à Stige si distende.

Come vede la Dea, che la radice
     Sostien ben dritto il molto alzato fusto,
     Verde, et hirsuta fà l’alta cervice,
     E lascia in terra un Pin l’amato busto,
     Il quale al canto, e al suon dolce, e felice
     Di quel, che fu ver la consorte giusto,
     Andò per ascoltar con l’altre piante,
     E vicino al bel suon fermò le piante.