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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/368

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Il corpo, e lo splendor del suo bel viso
     Tutto entra in quel bel fior simile al giglio,
     Ma resta in questo sol da lui diviso,
     Ch’egli è candido fior, questo è vermiglio.
     Prima, che torni Apollo al paradiso,
     China verso il bel fior la mano, e ’l ciglio,
     E ne le foglie sue purpuree, e vive
     Il dolor di Hiacinto, e ’l suo discrive.

Scrisse, hia, nel fior de la novella pianta,
     Nota, ch’è lagrimevole, e funesta.
     Non se’n vergogna Sparta, anzi se’n vanta,
     Ch’ogni anno la sua solenne festa.
     La quale il nome suo con pompa canta,
     E ’l nome di Hiacinthia anchor le resta,
     Dove nel rinovar la sua memoria
     Del fanciullo, e del fior si vanta, e gloria.

De lo splendor, ch’à l’huom nel volto alberga,
     Quando à sentir comincia il primo amore,
     Che fa, che l’alma, e l’ intelletto s’erga
     À la prima cagion d’ogni splendore,
     Nacque sovente una leggiadra verga,
     Che partorì qualche mirabil fiore;
     E gloriar del bel fanciul fè il loco
     Materno, e ne fa fè Hiacinto, e Croco.

Ma quando voi chiedeste altere piante,
     Che chinate al mio dir l’avida fronda,
     Come di Cipro l’ isola si vante
     D’haver là, dove di metallo abonda,
     Produtte quelle, che spregiar le sante
     Leggi de la lor Dea bella gioconda,
     Propetide nomate da parenti,
     À voi risponderia con questi accenti.

lo non mi glorio già, qual lo Spartano
     Fa de la nova pianta unica, e bella,
     D’haver vestito del sembiante humano
     La schiera, che Propetida s’appella.
     E se amate, ch’io faccia aperto, e piano
     Con più distesa, et utile favella,
     Come di lor mi glorij, e mi compiaccia,
     Queste vere parole udir vi piaccia.

Io mi soglio lodar, non altramente
     D’haver vestito il volto humano à loro,
     Di quel, ch’io fò de la Cerasta gente,
     C’havea cornuto il capo, come il toro.
     E sì perversa, et empia hebbe la mente,
     Che nel sacrare al Re del sommo choro,
     Spargean sopra l’altar santo, e divino
     Il sangue del non cauto peregrino.

Ogn’un, c’havesse visto il sangue sparso
     Sopra l’altar dinanzi al loro hostello,
     Creduto havria, che quivi ucciso, et arso
     Havessero monton, capro, ò vitello.
     Che d’ogni peregrin quivi comparso
     Facean sopra l’altar strage, e macello.
     E fer tanto sdegnar la Cipria Dea,
     Ch’abbandonar la sua patria volea.

Ma poi mossa à pietà del suo bel nido
     Disse, che colpa n’ ha la patria terra?
     Se questo iniquo stuol cornuto, e infido
     L’alma del peregrin manda sotterra;
     Meglio è dar bando lor da questo lido,
     Ó mandar sopra lor l’ultima guerra,
     Ó dar loro altra pena, e sia di sorte,
     Che in mezzo stia del bando, e de la morte.

E qual pena esser può quella, che chiede
     Il loro error, se non quella si acerba;
     Che fà, che l’huom à peggior forma cede,
     Se ben non gli dà bando, e ’n vita il serba?
     Mentre pensa qual dar, la fronte vede
     Di due curvate corna empia, e superba;
     E dice, è ben, ch’anchor cornuta reste.
     E fà, ch’ognun d’un bue prende la veste.

Si che de le Propetide quel vanto,
     Che di costor mi diedi, io dar mi posso,
     Che ’l celeste favor disprezzar tanto,
     Che se ben vider quei con altro dosso,
     Negar quella esser Dea del regno santo,
     Che cangiò loro il pel, la carne, e l’osso.
     Ma ben l’inique, incredule, et oscene
     N’hebber da lei le meritate pene.