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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/369

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Sdegnata l’alma Dea le fe si stolte,
     Che de la lor beltà superbe, e vane,
     Tratte le vesti intorno al corpo avolte,
     Prima ignude mostrar le membra humane:
     Poi rendè lor la mente, e in se raccolte
     Restar per lo stupor di novo insane.
     E poi che lo stupor vide si intenso,
     Le fe stupidi sassi, e fuor del senso.

Hor questo havrebbe l’ isola risposto
     À voi, cui volgo il mio fedele aviso;
     Volendo dir, che ’l bel, che stà riposto
     Nel volto di Hiacinto, e di Narciso,
     Novo fiore, et honor nel mondo ha posto;
     Ma quel bel, che le donne hanno nel viso,
     Ha seco tanto male, e tanto inganno,
     Che non apporta al mondo altro, che danno.

È forse poco mal, se l’huom dispone
     À viver l’età sua senza consorte ?
     Ne cadder molti in questa opinione,
     Vedendo una impudentia di tal sorte.
     Fra quali il primo fu Pigmalione,
     Che sofferta piuttosto havria la morte,
     Che prender moglie, quando senza veste
     Le vide andare infami, e dishoneste.

Scultor Pigmalione era eccellente,
     Se bene in Cipro havea la regia sede.
     Hor come vide quell’atto impudente,
     Non potè ne le donne haver più fede.
     E scacciato Himeneo da la sua mente,
     À la sua gran virtù si volse, e diede.
     E fe statue sì degne, e con tant’arte,
     Che fè stupire il mondo in ogni parte.

Gran gloria è di quel Re, ch’oltre al governo
     Ha di qualche virtù l’animo acceso.
     Non dico già, c’habbia il suo officio à scherno,
     E che ponga in oblio lo scettro, e ’l peso;
     Ma nel ritrarsi al suo luogo più interno,
     Data audienza, e ’l suo consiglio inteso,
     Da giusto fa, s’à l’otio non intende,
     Ma in essercitio degno il tempo spende.

Nel tempio de la moglie di Vulcano
     Posta una statua fu pochi anni avante,
     Da dotta fatta, e risoluta mano
     Di dente in un composto d’Elefante.
     Il cui raro artificio, e più c’humano
     Mostrava d’una vergine il sembiante,
     E potè tanto in lei l’humana cura,
     Che fu da l’arte vinta la natura.

Stupir vedendo il gran Ciprio scultore
     Ciascun, ch’ ivi venia d’ogni altro regno,
     De la rara beltà, de lo splendore
     Di quel bel simulacro illustre, e degno,
     Ad un’altera impresa accinse il core,
     E di voler passar pensò quel segno.
     Per far la fama sua volar più chiara,
     Ei far pensò una vergine più rara.

E volendo avanzar quella immortale
     Opra, che tutto ’l mondo unica appella,
     Vi pose tanto studio, e la fè tale,
     Che non si vide mai cosa più bella.
     Ne solamente potea dirsi eguale
     À l’altra sì mirabile donzella;
     Ma fatto il paragon, stupir fe ogni alma,
     E da tutti la nova hebbe la palma.

Quando il contento Re lodar la scorge
     Dal giudicio d’ogni huom più saggio, e intero,
     E del grido del popolo s’accorge,
     Che non adula al Re, ma dice il vero;
     L’occhio poi fiso à contemplarla porge,
     E loda, e ammira il suo bel magistero,
     Poi la fa por nel suo proprio ricetto,
     Per farla à gli occhi suoi più spesso obbietto.

Non può gli occhi levar di quella imago,
     Che vergine si degna rappresenta,
     E de la sua beltà talmente è vago,
     Che vi tien tutto ’l dì la luce intenta.
     Loda l’aspetto suo leggiadro, e vago,
     Che par, c’habbia lo spirto, e, che senta;
     E ch’ami alzare il volto, ò ’l ciglio almeno,
     Ma ’l virginal timor la tenga in freno.