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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/376

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Dice una sera al Re caldo dal vino,
     Per quel, ch’ella conobbe à la favella;
     Che la felicità del suo domino
     Vuol porgli in braccio una gentil donzella:
     E certo sia, ch’ in tutto il suo domino
     Non fu veduta mai cosa più bella;
     E che brama goder seco le piume,
     Ma non si vuol lasciar vedere al lume.

Che ’l nobil sangue, e ’l timor de parenti,
     E la vergogna virginal la tiene.
     Ma che non guardi à questo, e la contenti,
     Ne privi il letto suo di tanto bene;
     Che vedrà anchora i bei lumi lucenti,
     Come sicura sia de la sua spene;
     C’habbia in principio il fin d’amore in prezzo,
     E serbi à contentar gli occhi da sezzo.

Poi per meglio disporlo, afferma, come
     Ella è de le più nobili del regno.
     Loda i begli occhi, il volto, e l’auree chiome,
     I costumi, l’andar, l’arte, e l’ingegno.
     Dice di tutto il ver, sol mente il nome.
     Cerca saper il Re fin’ à qual segno
     L’età giunge, e l’altezza; ella l’assembra
     Del tutto à Mirra à gli anni, et à le membra.

In mente al Re l’età tenera torna,
     Quando nel suo fiorir n’arse più d’una,
     E gode haver la vista anchor sì adorna,
     Che sopra ogni altra sia grata à qualch’una.
     Hor poi, che la consorte non soggiorna
     Seco, vuole abbracciar questa fortuna,
     E dice à lei, che la fanciulla guidi
     Tosto, che ’l sonno ogn’un nel letto annidi.

Parla la cauta vecchia al Re, che dica,
     Ch’à tutte l’hore à lei s’apran le porte;
     Che vuol poter condur la nova amica
     Quando le torna ben fuor de la corte.
     Pensò con gran ragion la donna antica,
     Che se vederla il Re volea per sorte,
     Non era se non ben poter fuggire
     Fuor del letto real da le prim’ ire.

La vecchia in uno error crudele, e pia
     Trova con lieto cor la mesta figlia,
     E dice; Havrà il tuo cor quel, che desia,
     Se questa notte al mio parer s’appiglia.
     La fraude scopre à lei pietosa, e ria,
     E rallegrare il cor falle, e le ciglia;
     Ma non però del tutto ha lieto il petto,
     Dal grave error turbato, e dal sospetto.

Del cerchio il quarto havea fatto Boote
     Da l’hora, che fè scuro l’orizonte;
     E de la notte le stellate ruote
     Già possedean la sommità del monte;
     Lo Dio, che da travagli ne riscuote,
     À gli animai fea riposar la fronte,
     E stando l’alme lor mute et oppresse,
     Le stelle risplendean solo à se stesse:

Quando l’ infame vergine si spinse
     Verso la sceleraggine proposta.
     Fuggì la Luna splendida, et estinse
     La luce con la mano al volto opposta.
     Tanto nefando, e novo error costrinse
     À fuggirsi ogni stella, e star nascosta.
     Pose ogni segno al suo splendore il velo,
     E fè del foco suo mancare il cielo.

Ma prima tu copristi Icaro il viso
     Con Erigone tua, che in ciel riluce,
     Per la pietà, ch’ella hebbe al padre ucciso,
     Ne ardiste à tanto error volger la luce.
     Tre volte inciampò il piede, e dielle aviso
     Di non seguir l’ardor, che la conduce;
     E tre diè il gufo augurio con lo strido,
     Che dovesse tornarsi al proprio nido.

Ma faccian pur gli augurij quel, che sanno,
     Non lascia di seguir l’infame scorta;
     Che la notte, e le tenebre la fanno
     Men vergognosa andar verso la porta,
     Tien la sinistra la nutrice, e vanno
     Tentando il lor camin per l’aria morta.
     À l’uscio son di già, ch’entro l’accoglie
     Per far del padre suo la figlia moglie.