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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/378

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Si gitta in furia sopra il dosso un manto,
     E corre per la corte irato, e fello,
     Che ritrovar la crede in qualche canto,
     Pria che la porta s’apra del castello.
     Ma con la balia à travestirsi intanto
     S’era fuggita in un secreto hostello.
     Quindi poi giro al porto, e sopra un legno
     Montar, ch’allhor ne gia nel Tirio regno.

Con un Favonio in poppa il buon naviglio
     Solca l’ondoso mar verso levante,
     Portando seco al volontario essiglio
     La dolorosa, e scelerata amante.
     Com’è smontata su l’arena, il ciglio
     Ver l’Arabico sen volge, e le piante;
     Ne passar molti dì, che la nutrice
     Al regno trapassò scuro, e infelice.

Per la felice Arabia il camin prese
     Mirra per l’aspra sua fuggir fortuna;
     Ma la felicità di quel paese
     Non potè rallegrarla in parte alcuna.
     E già dal dì, che ’l padre in braccio prese,
     Cominciava à veder la nona Luna;
     E ne l’andar sentia venirsi meno,
     Per lo peso, c’havea l’infame seno.

Le fè veder la nona Luna il corno
     Ne la terra odorifera Sabea,
     Et essendo sparito in tutto il giorno,
     L’opre diurne ogn’un lasciate havea;
     Quand’ella al regno pio di stelle adorno
     Alzò la luce addolorata, e rea;
     E di lagrime sparse ambe le gote,
     Si fece udir dal ciel con queste note.

Lumi del ciel, se s’ha qualche pietate
     À chi l’error confessa, e se ne pente,
     Vi prego per la vostra alma bontate,
     Che vi fa star nel regno alto, e lucente;
     Poi ch’io l’error non nego, e voi mirate,
     Quanto seco se’n duol l’amara mente;
     Perch’io non noccia altrui, fate, che scorta
     Fra genti io mai non sia viva, ne morta.

Non ricuso il supplicio, ma sia tale,
     Ch’à me vergogna, e altrui non porti danno.
     Può far, s’io vivo, ogni alma intesa al male
     Lo stesso co’l mio essempio al padre inganno.
     Vergogna havrò nel regno atro, e mortale
     De l’altre ombre men rie, che quivi stanno.
     Deh nascondete il mio nefando torto,
     Per sempre al mondo vivo, e al mondo morto.

Mutatemi il supplicio, ch’io ne merto,
     Toglietemi à la vita, et à la morte.
     Perch’io non porga essempio al mondo aperto
     Altrui di fare error di si ria sorte.
     E, perchè dentro à l’ infernal deserto
     Non m’habbia à vergognar de l’ombre morte,
     Private l’alme del mio infame aspetto
     Vive, ò morte, che sian, c’han l’ intelletto.

À chi l’error confessa, e se ne duole,
     E chiede gratia al sempiterno regno,
     Esser benigno il Re superno suole,
     E di quel, che desta, suol farlo degno.
     À pena ha dette l’ultime parole,
     Che si sente le piante haver di legno.
     Ogni fessa unghia obliqua al suol s’afferra,
     E in forma di radice entra sotterra.

Si forman le due gambe un tronco duro,
     Da l’ osso la durezza il legno toglie.
     Son le medolle anchor quel, che già furo,
     E quelle entro al suo centro il tronco accoglie.
     Si fa succo odorato il sangue oscuro,
     Che nutre il legno, e le spinose spoglie.
     Le braccia il fusto in gran rami trasforma,
     E di piccioli arbusti i diti informa.

S’indura fuor la delicata pelle,
     Perche ogni parte à l’arbore risponda.
     Il grave seno, e l’altre membra belle
     Una scorza odorifera circonda.
     Già chiuse havea le gravide mammelle,
     Et aspirava à l’aurea chioma bionda,
     Ma pronta al suo desire ella rispose,
     E tirando giù il capo ivi s’ascose.