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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/379

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Se bene il volto human da lei disparse,
     Lagrima anchora, e versa in gocce il pianto.
     L’odor, che quella età grato in lei sparse,
     Nel succo trapassò del novo manto.
     Vi passò anchor la ria lussuria, ond’arse,
     E ne’ venerei assalti oprar può tanto,
     Che s’ogni poco alcun ne tempra, e prende,
     Ad ogni infame amor parato il rende.

L’arbore, e ’l pianto anchor riserba il nome,
     Che prima havea la scelerata amante.
     Mentre, ch’ella cangiò l’humane chiome
     Dormian d’ intorno à lei tutte le piante;
     E si maravigliar ne l’alba, come
     Si vider nato il novo arbore avante;
     E render gratie à sempiterni Dei,
     Ch’arricchì di tal don gli odor Sabei.

Il mal concetto infante intanto havea
     Molto ingrossato al novo arbore il seno,
     E già maturo in ogni membro ardea
     D’uscir dal cieco chiostro al ciel sereno.
     Ne però ritrovar la via sapea,
     Che la scorza il tenea per tutto in freno.
     Ogni arbore stupia, che v’era inteso,
     Ch’un tronco tanto havesse il ventre teso.

Mancavan le parole al duolo estremo,
     E ’l parto uscir volea troppo importuno,
     Ne potea mandar preghi al ciel supremo,
     Ne chiamare in favor Lucina, e Giuno.
     Il sen far non dimen bramava scemo,
     E tor l’ infante al chiostro ascoso, e bruno.
     E ben gemer s’udia con spessi crolli,
     Di pianto havendo i rami afflitti, e molli.

Da se la pia Lucina al tronco venne,
     Ch’al gran sen de la pianta intese il lume,
     E disse ogni parola, che convenne,
     Per far, ch’uscisse il novo figlio al lume.
     L’arbor la gratia desiata ottenne,
     Poi che ’l favor de l’opportuno Nume
     Fece tanto à la scorza aprire il velo,
     Che vivo fè veder l’ infante al cielo.

Ben maggior lo stupore ogni arbore have,
     Vedendo un tronco partorire un figlio,
     Che si credean, che ’l sen tirato, e grave
     Dovesse mandar fuor più d’un vinciglio.
     Come spuntar de la materna trave
     Si vede, e quasi fuor d’ogni periglio,
     Mentre la Dea l’accoglie, e stringe al petto,
     D’herbe, e di fior le fan le Ninfe un letto.

Con le materne gocce il figlio s’unse,
     Poi diero il latte à suo primo vagito.
     Di giorno in giorno in lui beltà s’aggiunse,
     Ogni anno più crescea bello, et ardito.
     Ma quando à quella età leggiadra giunse,
     Ch’invoglia quasi altrui d’esser marito;
     Havea tanto splendor nel volto impresso,
     Che ’l giudicava ogn’un Cupido istesso.

Togli à Cupido la faretra, e l’ale;
     Ó l’ale, e l’arco anchor dona à costui:
     E posti al paragon, dimanda, quale
     Sia quel, ch’arder d’amor suol fare altrui.
     Vedendo ogn’un la lor bellezza eguale
     Dirà; Gli Dei d’Amore hoggi son dui.
     Si vaga in somma hebbe la vista, e lieta,
     Che star l’Invidia fè stupita, e cheta,

Ne la bellezza poi se stesso vinse,
     Che crescer si scorgea di punto in punto.
     Hor mentre al quarto lustro egli si spinse,
     E fu fra ’l terzo, e ’l quarto al mezzo giunto:
     Di tal vaghezza il bel viso dipinse,
     Ch’ogni occhio, che’l mirò, d’amor fu punto.
     D’ogni donzella il cor fè desioso
     D’haverlo per amante, ò per isposo.

La Ninfa, che nutrillo, il rendè accorto,
     Com’ei dal Re di Cipro era disceso:
     Ma de la madre ria tacendo il torto,
     Disse, ch’ella nel sen portò il suo peso.
     Poi confortollo à gire al Ciprio porto,
     Pria che l’amor Sabeo l’havesse acceso.
     Adon (cosi il nomar) lodò il disegno,
     Et andò per passare al Ciprio regno.