Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/380

Da Wikisource.

Pur dianzi il Re di Cipro era passato
     Da questa vita al suo viver secondo,
     Dico quel Re, che de la figlia dato
     Havea si pretioso parto al mondo:
     E stava in gran romor tutto il Senato
     Nel trovar degno alcun del regal pondo.
     Ne stupor fia, s’era in discordia ogn’uno,
     Che del sangue real non v’era alcuno.

Hor come Adone al Senato s’offerse,
     Come figliuol di Cinira al governo,
     Ogn’un nel volto suo chiaro scoperse
     Il sangue regio, e ’l bello aer paterno.
     Ragioni opposte à lui furon diverse,
     E molti il nominar di sangue esterno.
     Quei, ch’esser volean Re, gridar, ma in vano,
     Ch’ in pochi dì lo scettro egli hebbe in mano.

La discordia de gli altri, e ’l veder certo
     L’illustre sangue regio nel suo volto;
     Lo scorgerlo si bello, e di tal merto,
     Onde s’oprar per lui le donne molto;
     Fer (se bene egli era figliuolo incerto
     Del Re pur dianzi à lor dal fato tolto)
     Che salutato Re fu dal consiglio,
     Et accettato come regio figlio.

Si sapea ben per Cipro il folle incesto,
     Che già commesso Mirra havea co’l padre.
     Che in quel furor il Re fè manifesto
     Lo inganno, ch’ella usò per farsi madre.
     Tal che s’appone il regno al ver, ch’à questo
     Re dato novo à le Ciprigne squadre,
     Secondo approva la sua vista bella,
     Sia padre l’avo, e madre la sorella.

È ver, ch’ogn’un di creder si fingea,
     Che del sangue regal ei fosse uscito,
     D’alcuna Ninfa nobile Sabea,
     E non d’amore infame, e prohibito.
     Tutte le donne in Cipro prese havea;
     Altra il bramava amante, altra marito:
     Al fin accese anchor la Dea del loco,
     E vendicò de la sua madre il foco.

Havendo un giorno sopra un picciol colle
     La Dea Ciprigna in braccio il suo Cupido,
     Mentre che scherza, e ’l bacia, e in alto il tolle,
     Un de gli aurati strali esce del nido,
     E ’l bel sen fere delicato, e molle,
     Ond’egli hebbe già il latte amato, e fido.
     Hor mentre, ch’ad amar la Dea s’accende,
     Nel Re, che quindi passa, i lumi intende.

Era venuto in quelle parti à caccia
     Quel Re, ch’à Marte poi si fè rivale:
     E coraggioso allhor seguia la traccia
     D’un alto, crudo, e intrepido Cinghiale.
     À punto ella in quel tempo il vide in faccia,
     Che ’l petto le ferì l’aurato strale.
     Fere il Cinghiale intanto Adon co’l dardo,
     Poi la Dea vede, e lei fere co’l guardo.

Come conosce à lo splendor del viso
     Adon, ch’ella è la Dea de la lor terra;
     Lascia, che sia da gli altri il verre ucciso,
     Et à piè de la Dea fido s’atterra.
     Tosto, ch’ella da gli altri esser diviso
     Lo scorge, seco in una nube il serra.
     Poi levar fallo, e scopre il cor secreto,
     E fallo co’l dir suo stupito, e lieto.

Dovrei saper quel ben, ch’al mondo apporta
     L’Amor, ch’unisce altrui, s’io son sua madre.
     Sì che s’al generare ei solo è scorta,
     D’ogni cosa creata Amore è padre.
     Hor se mentre ad amare Amore essorta,
     Fà nascer tante cose alme, e leggiadre:
     Ogn’un, ch’al voto suo non è secondo,
     In quel, che à lui s’avien, distrugge il mondo.

Amore altro non è, ch’un bel desio
     D’effigie, che l’amante approva bella,
     Che vede lei de lo splendor di Dio
     Un raggio haver ne l’una, e l’altra stella:
     E per goder quel ben, pon se in oblio,
     E fa di tal beltà l’anima ancella.
     E se risponde à lui l’obbietto amato,
     L’un gode, e l’altro un ben santo, e beato.