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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/388

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Si che non gir, dove tal belva rugge,
     Poi che le forze, e l’ ire ha troppo pronte.
     Fuggi pure ogni fera, che non fugge,
     Ma per voler pugnar volta la fronte.
     Non far, che l’animal, che ’l sangue sugge,
     Spenga le tue bellezze illustri, e conte;
     Ne per voler mostrar le pruove tue,
     Che ’l tuo soverchio ardir dia danno à due.

Con questo affetuoso avertimento
     Ti lascio, e per un tempo al ciel m’ invio,
     Fin che faccian gli Dei restar contento
     Del debito trionfo il maggior Dio.
     Spiegan con questo dir le penne al vento
     I Cigni, e vanno al regno eterno, e pio,
     E fanno allegro il Ciel de lo splendore
     De la benigna Dea madre d’Amore.

Al Re, partita lei, venne in pensiero
     Di riveder la patria, ove già nacque:
     Che dove fu privato cavaliero,
     Di farsi riveder gran Re gli piacque.
     Con real compagnia fa, che ’l nocchiero
     Passa ver la Fenicia le salse acque,
     Per terra poi ver l’Austro il camin prende
     Ver dove tanto odor la terra rende.

Fu nel passar del gran monte Libano
     Mostrato al bello Adone il core aperto;
     Che ’l Re del loco, affabile, et humano
     Volle honorare un Re di tanto merto.
     E, perchè ogni animal diverso, e strano
     Stanza in quel monte faticoso, et erto,
     Volle, ch’Adone il Re grato, e cortese
     Gustasse ancho il cacciar del suo paese.

Non seppe contradir il Re Ciprigno
     Al liberal di quel Signore invito,
     Il qual alquanti dì grato, e benigno
     Gli fe goder le caccie del suo sito.
     Intanto il Nume horribile, e sanguigno
     Havea l’amor di Venere sentito,
     E come Dio disposto à la vendetta
     Contra il misero Adone il passo affretta.

Hor mentre Adon per lo difficil monte
     Co’l Re cortese à suoi piaceri intende;
     Marte cangiando la divina fronte
     D’un superbo cinghiale il volto prende.
     Per darlo à l’alta ripa di Caronte
     Contra d’Adone il verre il corso stende.
     Con lo spiedo ei l’attende ardito, e forte;
     Che vuol del capo ornar le regie porte.

Havea tutto d’acciaio armato il fianco
     Il porco, ma coperto era dal pelo,
     Tal, che fu il tergo assicurato, e franco
     Percosso in van dal tridentato telo.
     Ma ben fè il verre Adon pallido à bianco,
     Ché gli squarciò co’l dente il carnal velo;
     Gli fè il sangue abondar da larga vena,
     E render l’aura estrema in su l’arena.

Lo Dio de l’arme à la celeste parte
     Torna à guidar la sua maligna stella.
     Venere, che non sà, che ’l crudo Marte
     L’imagin tolta al mondo habbia più bella;
     Per dover gir dal regno alto si parte
     Dove l’amor d’Adon qua giù l’appella;
     E battendo alta in aere anchor le piume,
     Volse al monte Libano à caso il lume.

Come vede il garzon disteso in terra
     Con tanto sangue sparso, e forse morto,
     Ver quella parte i bianchi Cigni atterra,
     Ch’anchor chi colui sia, non ha ben scorto:
     Ma quando il vede appresso, il crine afferra,
     Et à le proprie sue carni fa torto.
     Poi contra il fato aperto il cor non saggio,
     Aggiunse al primo dir quest’altro oltraggio.

Se bene havete fati ingiusti, et empi
     La terra, e me d’Adon renduta priva;
     Non farete però, che in tutti i tempi
     La memoria di lui non resti viva.
     De la sua morte ogni anno i mesti essempi
     Faran, che ’l nome suo perpetuo viva;
     Il mondo imiterà con rito santo
     Co’l suo infortunio il mio lamento, e pianto.