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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/394

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Orfeo tanto era al suono, e al canto intento
     Che non senti l’ insolito romore.
     Hor mentre il sasso va fendendo il vento
     Per donare ad Orfeo noia, e dolore;
     La Lira ode accoppiata al dolce accento,
     E pon fin da se stesso al suo furore.
     Si china il sasso à piè del dolce suono,
     Come de l’error suo chiegga perdono.

Ma cresce ogni hor la temeraria guerra
     De l’ insolente orgoglio baccanale.
     Questa una gleba, e quella un sasso afferra,
     Poi fa, che contra Orfeo dispieghin l’ale.
     Ben fatto ei loro havria cadere in terra
     L’orgoglio co’l suo canto alto, e immortale;
     Ma le trombe, i tamburi, i gridi, e l’armi
     Muta fecer parer la cetra, e i carmi.

Molte vedendo star le belve attratte,
     Et haver à quel suon perduta l’alma,
     Le fer prigioni, e l’ubriache, e matte
     Del theatro d’Orfeo portar la palma.
     Ecco comincian già le pietre tratte
     À far sanguigna à lui la carnal salma,
     Che d’ogn’intorno à lui le donne stanno,
     E fangli à più potere oltraggio, e danno.

Come s’osa talhor l’augel notturno
     Mostrarsi mentre più risplende il giorno,
     Ogni augel contra lui corre diurno,
     E fagli più, che puote oltraggio, e scorno:
     Cosi contra il nipote di Saturno
     Van l’insensate à fargli un cerchio intorno,
     E mentre il canto ei pur move, e la cetra,
     Hora il tirso il percuote, hora la pietra.

Lanciato, c’han l’impampinato telo,
     Ch’ad uso non dovea servir tant’empio,
     Per fargli l’alma uscir del mortal velo,
     Per dare à gli altri suoi seguaci essempio;
     Cercan altre arme, e ben propitio il cielo
     Hebber per far di lui l’ultimo scempio.
     Vider bifolchi arar, guardar gli armenti,
     C’haveano atti à ferir molti stormenti.

Altri la vanga oprare, altri la zappa,
     Secondo il vario fin, c’havea ciascuno.
     Hor come fuor del bosco, ù s’ara, e zappa,
     Il muliebre stuol giunge importuno;
     Ogni pastor da la lor furia scappa,
     E lascia ogni stormento più opportuno.
     Fuggon gli agresti il muliebre sdegno,
     E lascian l’opra, il gregge, il ferro, e ’l legno.

Tolte le scuri, e gli altri hastati ferri,
     E flagellati, e posti in fuga i buoi,
     Ritornan dove fra cipressi, e cerri,
     Orfeo s’aiuta in van co’ versi suoi.
     Forz’è, ch’à tanti stratij al fin s’atterri
     Il gran scrittor de’ gesti de gli Heroi.
     Per quella bocca, ò Dei, l’alma gli uscio,
     Che mosse il bruto, il sasso, il bosco, e’l rio.

Dapoi c’hebber commesso il sacrilegio
     Le spietate baccanti infami, et ebre,
     E potè più d’un canto cosi egregio
     Lo sdegno incomparabil muliebre,
     Le selve, che i tuoi versi hebbero in pregio,
     Fer lagrimare, Orfeo, le lor palpebre.
     Le dure Selci, à cui piacesti tanto,
     Pianser l’aspra tua morte, e ’l dolce canto.

Sparser da gli occhi il distillato vetro
     Gli augelli, e diero à l’aria il flebil verso.
     Mosser le Ninfe il doloroso metro,
     E ’l corpo ornar del manto oscuro, e perso.
     Come ti vide degno del feretro
     Nel bosco afllitto l’arbore diverso,
     Gettò dal capo altier l’ornato crine,
     E pianse le tue rime alte, e divine.

Nel bel regno di Tracia il fonte, e ’l fiume,
     Che gustò le sue voci alte, e gioconde,
     Fer pianger tanto il doloroso lume,
     Ch’in maggior copia al mar fer correr l’onde.
     Seguendo il lor sacrilego costume
     Le donne incrudelite, e furibonde,
     Mandato il corpo del poeta in quarti,
     Sparser le varie membra in varie parti.