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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/404

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libro

Come con gli occhi il ciel notturni scopra
     De ladri i cauti furti, e de gli amanti,
     Apollo, ovunque Chione si ricopra,
     Pensa goder gli angelici sembianti.
     Non attende Mercurio, che di sopra
     Risplendano i bei lumi eterni, e santi;
     Ma dalle, come sola esser l’intende,
     Co’ serpi il sonno, e grave il sen le rende.

Tosto che vede in ciel la notte oscura
     Sopra il carro stellato andare in volta
     Apollo, ad una vecchia il volto fura,
     Ch’esser custodia à lei solea tal volta.
     Com’ella scorge la senil figura,
     E le temute sue parole ascolta,
     Con quella entra à goder l’usate piume,
     Da cui prendea l’essempio, e ’l buon costume.

Ma poi che rimaner fè il sonno morto
     Lo spirto, che solea lei tener viva,
     Co ’l suo volto primier l’amante accorto
     Gode il bramato amor de la sua Diva.
     Come l’ha dato l’ultimo conforto,
     E scopertosi quel, che ’l giorno avviva,
     Lascia l’amato volto almo, e giocondo,
     Poi nel ciel torna à dar la luce al mondo.

Per nove segni il Sol girando intorno
     Havea su ’l carro il suo splendor condutto,
     E de l’andate Lune il nono corno
     Havea renduto al sen maturo il frutto:
     Quando veder fe Chione un figlio al giorno
     Simile ne le astutie al padre in tutto.
     Il pronto dir, le man rapaci, e ladre
     No ’l fer degenerar punto dal padre.

La dotta, e soavissima favella
     Fea parer nero il bianco, e bianco il nero:
     E intanto con la man fugace, e fella
     De l’or lasciava altrui scarco, e leggiero.
     E, perche la sua prole fu gemella,
     Oltre à colui, ch’era nemico al vero,
     Ch’Autolico nomar del biondo Dio
     Un figlio più felice al mondo uscio.

Fu detto Filemone, e con la cetra
     Rendea si caro, e si soave il canto,
     C’havrebbe intenerito un cor di pietra,
     E mosso in ogni cor la pieta, e ’l pianto.
     Chi troppo alto favore, e gratia impetra
     Da l’anime del regno eletto, e santo,
     Talhor di tal superbia accende il core,
     Ch’ogni havuto favor torna in dolore.

Che giova haver due Numi havuti amanti?
     Che giova haver di lor gemella prole?
     Che havere un padre il più forte fra quanti
     Forti vide giamai girando il Sole?
     Che d’haver tratti i bei corporei manti
     Da quel, che regge l’universa mole?
     Noce il troppo ottener da gli alti Dei
     Tal volta, e, per ver dir nocque à costei.

Poi che la sua beltà, via più che humana,
     Accesi hebbe due Dei di tanto merto,
     Di se medesma gloriosa, e vana
     L’interno orgoglio suo veder fe aperto.
     E disse, che nel volto di Diana
     Scorgea più d’uno error palese, e certo,
     E volea con l’altrui mostrar dispregio,
     Ch’ella un sembiante havea di maggior pregio.

La Dea sdegnata il nervo incocca, e tira,
     E poi l’occhio, e lo stral co ’l segno accorda:
     Fin ch’esser l’arco un mezzo tondo mira,
     E come una piramide la corda;
     La destra poi, dov’ha sempre la mira
     L’occhio, lascia volar la freccia ingorda;
     L’arco almen curvo fin torna prescritto,
     E ’l nervo perde l’angulo, e vien dritto.

La freccia và ver Chione empia, e superba,
     E la peccante lingua à lei percuote.
     Com’ella sente la percossa acerba,
     S’arma à doler, ma scior non può le note.
     Macchiando del suo sangue i fiori, e l’herba,
     Pone à giacer l’impallidite gote;
     E furo i fiori, e l’herba il regio letto,
     Dove l’aura vital spirò dal petto.