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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/405

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Miser quanta sentij pena, e cordoglio,
     Vedendo spento in lei per sempre il Sole.
     Volli al fratello il duol torre, e l’orgoglio
     Con le fraterne, e debite parole;
     Ma cosi m’ascoltò, come lo scoglio
     Il mormorar de l’onde ascoltar suole:
     Anzi con grido tal s’ange, e flagella,
     Che mostreria men duolo una donzella.

Ma poi, che in mezzo ai foco arder la vede,
     Per l’intenso dolor confuso, e cieco,
     Fà quattro, e cinque volte andare il piede
     Per gittarsi nel foco, et arder seco:
     Ben da noi si ritien, ma in se non riede;
     Vuol darsi in tutto al sotterraneo speco;
     E ver la cima del Castalio monte
     Con gran velocità drizza la fronte.

Si come il bue talhor corre lontano,
     Che tutte insanguinate habbia le spoglie
     Da l’ostinato, e perfido tafano,
     Che vuol satiar su lui l’ingorde voglie:
     Tal corre furioso il mio germano
     Punto da le novelle interne doglie.
     Che più de l’huom corresse allhor mi parve,
     E l’ale havesse à piè, si tosto sparve.

Ver la cima del monte il passo affretta
     Tanto, ch’al giogo più sublime arriva,
     Dove con un gran salto in fuor si getta,
     Per mandar l’alma à la tartarea riva:
     Ma ’l pio rettor del lume non aspetta,
     Che renda del mortal l’alma anchor priva;
     La sua spoglia carnal veste di piume,
     E fa, ch’in altra forma ei gode il lume.

Forma molto minor l’alata scorza,
     Curva l’artiglio, e ’l rostro empio diviene,
     E serba anchor più grande animo, e forza,
     Ch’al picciol corpo suo non si conviene.
     Sparviero ogn’ altro augello affronta, e sforza
     E di rapina il suo mortal mantiene.
     E mentre ingiusto altrui, doglia altrui porge,
     Cagiona in me quel duol, che in me si scorge.

Mentre racconta à Peleo il Re Ceice,
     Del suo fratello il fato acerbo, e reo,
     Un gentil’huom del Re s’accosta, e dice;
     Com’è giù ne la corte un huom plebeo,
     Che mostra alcuno incontro empio, e infelice
     Haver da dire al suo signor Peleo.
     Il Re, che brama anch’ei saperne il tutto,
     Comanda, che ’l plebeo venga introdutto.

Come il rustico appar nel nobil tetto
     Dal corso afflitto, subito, e veloce,
     Senzi haver l’occhio al regio alto cospetto,
     Come fosse in un campo, alza la voce.
     Pur con difficultà scopre il concetto
     Dal caso oppresso insolito, et atroce.
     Quindi ogn’un vede, al grido, et à l’affanno,
     Che brama di contar presto un gran danno.

Di ferro ò Peleo, ò Peleo, e d’ardimento
     À fiero incontro t’arma, e disperato,
     Che perdi, se tu tardi un sol momento,
     Quel poco ben, che al mondo t’è restato.
     Non far, ch’ io getti le parole al vento,
     Ma dovunque io m’invio, me segui armato;
     S’armi ogni amico tuo di ferro, e d’hasta,
     E soccorriamo al mal, che ne contrasta.

Lo stupefatto Re con Peleo vole,
     Che colui, che custodia era à gli armenti,
     Nominato Anetor, con più parole
     Questo novo infortunio rappresenti.
     Dice egli; Era arrivato al punto il Sole,
     Ch’à piombo quasi manda i raggi ardenti,
     Quand’io m’oprai, che le giuvenche, e i tori
     Fuggisser presso al mar gli estivi ardori.

Quel bue sopra l’arena aquosa giace,
     E del mar guarda il copioso fonte;
     Questo di star nel bosco si compiace;
     Notando un’ altro sol mostra la fronte.
     Una folta foresta alta, e capace
     Dal mar si stende insino al piè del monte;
     La selva nel suo centro un tempio chiude,
     Dov’entra il mare, e forma una palude.