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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/406

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Per oro, ò per colonne alte, e leggiadre
     Non si può dir l’ascoso tempio altero;
     Ma bene è sacro à le Nereide, e al padre,
     S’un pescator, che v’è, non mente il vero.
     Fra quanti mai la nostra antica madre
     Mostri creò nel nostro ampio Hemispero,
     Fur nulla à par d’un lupo altero, et empio,
     Ch’uscì non so del bosco, ò pur del tempio.

In quanto à me del tempio il credo uscito,
     Come de’ marin Dei sferza, e flagello;
     E spirto sia del regno di Cocito
     Per quel, che mostra il dente iniquo, e fello.
     Però che non saria di fare ardito
     Fra tanti huomini, e can tanto macello.
     Ch’un lupo natural mai non s’accosta,
     Se molti huomini, e can gli fan risposta.

L’aura tutto è velen, che spira il petto;
     Qual folgor ciò, che incontra, arde, e consuma,
     Di spuma, e sangue ha ’l volto, e ’l pelo infetto;
     De l’occhio il foco brucia, ovunque alluma;
     È fame, e rabbia il suo vorace affetto;
     Ma per quel, ch’ io ne senta, e ne presuma,
     Più tosto è rabbia, poi che le sue brame
     Non cercan co’l mangiar nutrir la fame.

L’esca, che ’l può nutrir, posta in oblio,
     Solo à ferir l’armento, e ’l gregge intende;
     E come appicca il dente ingiusto, e rio,
     No’l suol lasciar, se in terra il bue non stende.
     Per castigar l’ ingordo suo desio
     L’arme ogni tuo pastor contra gli prende:
     Ma, perche siam di lui men liberi, e forti,
     Molti lasciati n’ ho piagati, e morti.

È la palude, e ’l mar tutto homai sangue:
     Ma veggio, che nel dir troppo m’attempo.
     Vegniamo à l’armi pur per farlo essangue,
     Ne dispensiam ne le parole il tempo;
     Che per lo bue, ch’anchor vivendo langue,
     Noi giungerem per aventura à tempo;
     Prendiam pur l’arme, e andiamo insieme uniti,
     Per far, che ’l bue, ch’anchor vive, s’aiti.

Havea l’afflitto Peleo il tutto inteso,
     Pur poco era il suo cor mosso dal danno;
     Ma ben del parricidio il grave peso
     Infinito al suo cor portava affanno:
     Che vedea ben, che ’l lupo, il quale offeso
     L’armento havea co’l dente empio, e tiranno,
     E ’l guasto gregge, e l’infelice essiglio,
     Da la Ninfa nascea priva del figlio.

Discorse, che la madre disperata
     Per la crudele al figlio occorsa sorte,
     Per far la pompa funeral più grata,
     Contra l’armento suo mandò la morte.
     Comanda il Re, che la sua gente armata
     La massa corra à far fuor de le porte,
     Che per assicurar la sua contrada
     Vuol contra il mostro anch’ei stringer la spada.

Hor mentre à ragunar la gente, e l’arme
     S’ode la voce, il timpano, e la tromba,
     E comanda, ch’ogn’un s’unisca, e s’arme,
     Contra chi dà tant’huomini à la tomba;
     Et ogni suono, e bellicoso carme
     Per la cittade alto rimbomba;
     Alcione la Reina ode, e le pesa,
     Che ’l Re s’accinga anchora à questa impresa.

Ne la medesma forma, in cui trovosse
     Non bene acconcia anchor la bionda chioma,
     Fuor de la stanza sua secreta mosse
     Per gire al Re la sua terrena soma.
     E ’l pregò, ch’à non gir contento fosse,
     Dove tanti animai la belva doma.
     À fin, che ’l general del regno pianto,
     Non vesta per due morti il nero manto.

Poi c’hebbe Peleo alquanto havuto il core,
     Dubbio disse à la donna alta, e reale.
     Lascia da parte pur tutto il timore,
     Ch’ io non vò riparar con l’arme al male.
     E tu benigno Re fa, che ’l furore
     Cessi de l’huom nel Lupo empio, e fatale;
     Però ch’ in vece à me convien de l’arme
     Placar gli Dei del mar co’l santo carme.