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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/409

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Ogni tardanza al mio pensier fa danno;
     Ma per quei raggi io ti prometto, e giuro,
     Ch’à la paterna stella il lume danno,
     Che mi vedrai star dentro al patrio muro,
     Pria, che Delia due volte il nero panno
     Ponga al suo lume, e in tutto il renda oscuro.
     Sarò (se ’l ciel vorrà) nel patrio seno,
     Pria che due volte il tondo ella habbia pieno.

Dato che l’ ha di subito ritorno
     In quanto al buon voler sicura speme,
     Seco abbandona il regio alto soggiorno,
     E và, dove l’attende la trireme.
     Com’ella fuor de l’uno, e l’altro corno
     Del porto vede il mar, ch’ondeggia, e freme,
     Come sempre suol far vicino al lido,
     Vien meno à piè del suo marito fido.

Presaga del suo mal la donna cade,
     Fa venire il marito il fresco fonte,
     E pien d’affettuosa caritade
     Spruzza, per farla risentir, la fronte.
     Tosto, ch’ella ha lo spirto in libertade,
     Il lume à le bellezze amate, e conte
     Alza, e di novo lagrimando il prega:
     E ’l Re con gran pietà piangendo il nega.

Si diero al fin gli abbracciamenti estremi,
     Poi di perfetto amor dato ogni segno,
     Monta sopra lo schifo, e da due remi
     Si fa il Re trasportare al maggior legno.
     Forz’è, ch’Alcione un’altra volta tremi,
     E mandi à terra il suo mortal sostegno.
     Tien poi, come s’avviva, il lume intento
     Dove anchor la galea và senza vento.

Dal porto solcan via l’humil bonaccia
     Gli schiavi, c’havea il Re fra mille eletti,
     E con l’ ignude, e poderose braccia
     Tirano i lunghi remi a’ forti petti.
     Il pin dal gemino ordine si caccia
     Ogn’hor via più lontan da patrij tetti.
     Nel tempo istesso ogn’uno il remo affonda,
     E fa lucida in su risplender l’onda.

Mentre và il legno anchor vicino al lido,
     E discerner anchor possono il volto,
     Ella riguarda il suo marito fido,
     Che ne la poppa à lei tien l’occhio volto.
     Risponde quinci, e quindi il cenno, e ’l grido:
     Ma poi che di conoscersi è lor tolto,
     Se ben più non si parla, e non s’accenna,
     Ei dà l’occhio à la terra, ella à l’antenna.

Tosto, che fuor del porto esser si mira
     Il comito, e spirare il vento sente,
     Altissime le corna à l’arbor tira,
     Da poi, che ’l vento, e l’onda gliel consente.
     Esce del sen Maliaco, e tien la mira
     Ver l’odorato, e lucido oriente.
     E tanto innanzi il pinge il carco velo,
     Ch’altro non veggon più, che ’l mare, e ’l cielo.

Come à la vela sventurata il lume
     De l’infelice Alcione più non giunge,
     À trovar và le sue vedove piume,
     Dove maggior dolor la ’ngombra, e punge.
     Che ’l letto, e ’l loco, dove per costume
     Con Himeneo la sposa si congiunge,
     Rimembra à lei, che gli arbori, e le sarte
     Tolgono al letto suo la miglior parte.

Ne l’hora, che ’l figliuol d’ Hipperione
     (Mentre à coprir si va) raddoppia l’ombra,
     E fa, che la fanciulla di Titone
     La notte da gli Antipodi disgombra,
     Vien fuor superbo contra l’Aquilone
     L’Austro, et appresso l’ Euro il cielo ingombra:
     E fan con frequentissime procelle
     Superbo alzare il mar fin à le stelle.

Il buon padron, che ’l mar biancheggiar vede
     Ne l’hora, ch’à mortai la notte torna,
     E che la rabbia, che contraria fiede,
     Dal suo primiero intento il pin distorna;
     Poi che ’l fischio non val, co’l grido chiede,
     Ch’abbassi l’artimon l’altere corna;
     Che con vela minor si prenda il vento,
     Per haver men sospetto, e men tormento.