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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/410

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Ma l’onda, la procella, il vento, e ’l tuono
     Non lascia di chi regge udire il grido:
     Pare ogn’un volontario, ov’egli è buono,
     Cerca d’assicurare il comun nido.
     À remi alcun, ch’anchor distesi sono,
     Dentro un albergo dar cerca più fido.
     Dal mar altri assicura i lati, e ’l centro,
     Che se i nemici han fuor, non gli habbian dentro.

Altri di dare à l’arbor minor panno
     Su l’antenna minor prende il governo,
     E mentre dubbij, e senza legge vanno,
     Nel ciel cresce, e nel mar l’horribil verno.
     La terra già lo Dio, che tempra l’anno,
     Havea lasciato un tenebroso inferno,
     E i venti più feroci d’ogn’ intorno
     Fean più superbo à l’onde alzare il corno.

Ei medesmo non sa dove habbia il core
     Quel, che gli ufficij, e gli ordini comparte.
     Facciasi quel, che vuol, commette errore,
     Tanto è ’l travaglio suo maggior de l’arte.
     Pur pensa per men mal l’ondoso horrore
     Scorrendo andar ver la Tracense parte.
     Ne può quindi da scogli essere offeso,
     Che tien d’andar fra Sciro, et Aloneso.

Co’l grido l’huom, con lo stridor la corda,
     Co’l fremer l’alto mar, co’ venti il cielo
     Rende ogni loro orecchia inferma, e sorda,
     Oltre al romor, che fà la pioggia, e ’l gielo.
     Con tanto horrore, e stratio il tuon s’accorda,
     Che porta seco in giù l’ethereo telo.
     À romper l’onda il mar tant’alto poggia,
     Che sparge i nembi, e ’l ciel d’un’altra pioggia.

Forma una valle si profonda, e scura
     Il mar fra l’una, e l’altra onda, che sorge;
     Che mentre in aere il breve lampo dura,
     La nera arena in fondo al mar si scorge.
     Giunge la valle, ù la tartarea cura
     Mille pene diverse à l’ombre porge.
     La spuma è luminosa in cima al monte,
     La valle è il nero stagno di Caronte.

Seguendo il corso suo l’afflitto legno,
     Hor pargli in cima à l’alpe andare à volo,
     E guardando à l’ ingiù vedere il regno
     De le perpetue lagrime, e del duolo.
     Quando il fa poi cader l’ondoso sdegno,
     Gli par veder dal basso inferno il polo.
     Il combattuto pin geme, e risuona,
     Qual se l’ariete, e ’l disco il muro intuona.

Come contra la squadra ardito, e fero
     Corre il leone, e l’hasta, che l’offende:
     Chi và contra il legno il mare altiero,
     E contra ogn’un, che di salvarlo intende.
     Co’l mare in lega il vento aquoso, e nero
     Più forza à l’onda incrudelita rende.
     Mostra ella al pin co’l suo montar tanto alto,
     Che ’l vuol per forza havere, e per assalto.

Già tolta ha il mar la pece, e l’atra veste,
     La qual le congiunture al legno asconde,
     E le fessure già molte, e funeste
     Donano il passo à le mortifere onde.
     Legenti sbigottite esperte, e preste,
     Accio che il lor navilio non s’affonde,
     Tornan nel mare il mare, e cerca ogn’uno
     Far riparo al suo assalto, empio, e importuno.

Aperto Noto de la veste il lembo,
     Versa giù tanta pioggia, e tanto gielo,
     Che voi direste trasformato in nembo
     Cader tutto nel mar l’ethereo cielo.
     Ben veggon quei, che’l pin porta nel grembo,
     Che l’alma è per lasciare il carnal velo,
     Che ponno à tanto oltraggio, à tanto assedio
     Con gran difficultà trovar rimedio.

Non è men grave la gonfiata vela
     Dal mare, e da la pioggia, che dal vento.
     Il ciel, ch’ogni suo foco ammorza, e cela,
     Porge al notturno horror più gran spavento.
     Pur da nembi il balen talhor si svela,
     E fa lor lume, e fugge in un momento.
     In mille luoghi ha già l’ondoso torto
     Sdruscito il legno vivo, e tolto il morto.