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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/416

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S’io fossi in quella età morta (risponde)
     Quando i primi alimenti hebbi da vui,
     Non pioverei da trist’occhi tant’onde,
     Ne il mio lagrimerei co’l fato altrui.
     Sappi, che ’l mare il mio Ceice asconde,
     Sappi, che ’l suo naufragio io so da lui;
     Ho visto lui medesmo in questa cella,
     E conosciuto il volto, e la favella.

Quando se’n volle andar, ver lui mi spinsi,
     E l’abbracciai per ritenerlo meco:
     Ma l’ombra in vece del suo corpo strinsi,
     Però ch’ei non havea la carne seco.
     Del figlio di quel Dio sol l’ombra avinsi,
     Il qual resta ne l’alba ultimo cieco.
     Dubbio non ho, che l’ombra, che m’apparse,
     Fu di colui, che ’l cor mi prese, et arse.

Questo è ben ver, che ’l solito splendore
     Ei non havea, ma il volto atro, e dimesso,
     Piovendo il mento, e ’l crin continuo humore
     Lo scorsi stare in questo loco istesso.
     Chinar fa intanto l’allumato ardore,
     E cerca, se v’ ha il piè vestigio impresso,
     Se l’onda, che piovea la chioma, e ’l mento,
     Havea bagnato à sorte il pavimento.

Misera me, che l’animo indovino
     Il tuo miser naufragio mi predisse.
     E ti sforzò lo tuo crudel destino
     À far, che ’l prego mio non si seguisse.
     Sofferto havessi almen, che su’l tuo pino
     La sventurata Alcione anchor venisse.
     Che d’ambi insieme il fin sarebbe giunto,
     Ne havrei priva di te passato un punto.

Et hor senza il mio corpo il tuo trasporta
     Per lo infinito mar l’onda importuna;
     Et io son senza te misera morta,
     Lunge da te mi sbatte la fortuna.
     Per chiuder dunque al rio destin la porta
     Resti la luce mia per sempre bruna;
     Che s’io volessi anchor l’aura spirare,
     Più crudo in me il pensier saria, che ’l mare.

Non mi convien pugnar costante, e forte
     Per superar la doglia aspra, e mortale,
     Che n’havrei mille in vece d’una morte,
     Et ella à fin porria meta al mio male.
     Vò far la mia compagna à la tua sorte,
     Venir vò al fin del mio corso fatale;
     S’uniti non starem dentro ne’ marmi,
     Congiunti almen sarem di fuor ne’ carmi.

Non potrò ne la medesma fossa
     Le nostre far ripor terrene some,
     Se non potrò toccar l’ossa con l’ossa,
     Toccare almen vorrò co’l nome il nome.
     Mentre dice cosi, dà la percossa
     Al volto, e al petto, e poi straccia le chiome.
     Fa noto anchor il duol, che in lei fa nido,
     Hor l’ardente sospiro, hor l’alto strido.

Cercano i suoi ministri, e la nutrice
     Con voce santa, e pia di consolarla,
     E che non creda d’essere infelice
     Per quel, che ’l sogno à lei dimostra, e parla.
     Che quasi sempre ei la menzogna dice,
     Ne però co’l dir lor posson ritrarla
     Da quel, che in sogno à lei pria creder feo
     La sembianza imitata da Morfeo.

L’Aurora già splendea lucente, e bella,
     E per fuggir le sante alme del cielo
     Il paragon de la diurna stella
     Tutte havean posto à la lor luce il velo,
     E mossi havean gli augei la lor favella
     Per salutare il bel Signor di Delo,
     Quando la moglie pia senza conforto
     Si trasportò dal regio albergo al porto.

Mentre quivi dimora, e che rimembra,
     Ei fe snodare il lin da questa sponda,
     Al legno qui diè l’infelici membra,
     Pur qui perdei la sua vista gioconda;
     Un non so che nel mar veder le sembra,
     Che verso il porto sia spinto da l’onda.
     Non sa che sia, ma alquanto, al porto spinto
     Vede esser dal naufragio un huomo estinto.