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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/418

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Fra gli altri sopra il porto allhor si tenne
     Un vecchio, che stupir vedendo ogni alma,
     C’havesser cosi subito di penne
     Vestito Alcione, e ’l Re la carnal salma,
     Disse. Ogn’un, che sapesse quel, ch’avenne
     À l’augel, che vi mostra hor la mia palma,
     Non stupiria del trasformato tergo;
     E in questo dir fe lor vedere un Mergo.

Aprite pure à stupor novo il lume,
     Ch’io vò contar del Mergo onde discende,
     E come d’huomo anch’ei vestì le piume,
     E perche à l’annegarsi ei tanto intende.
     Dardano fu figliuol del maggior Nume,
     Da lui l’alma Erittonio, e ’l corpo prende;
     Poscia Erittonio Troio al mondo diede,
     Padre d’Assarco, d’Ilo, e Ganimede.

D’Ilo discese poi Laomedonte,
     Di cui l’ultimo Re di Troia nacque.
     Hor quello augel, che la cangiata fronte
     Nasconde cosi spesso sotto l’acque,
     Uscì di Priamo, à cui nel patrio monte
     Detta Alissitoe una Amadriada piacque;
     E sottoposta à l’amorose some
     N’hebbe quel Mergo, ch’Essaco hebbe nome.

Si che quel, che và in là, marino augello,
     Benche nascesse di diversa madre,
     Fu del fortissimo Hettore fratello,
     Però ch’ambi da Giove hebbero il padre.
     Ne forse havria nel martial flagello,
     Fatto men mal ne le nemiche squadre,
     Se non l’havesse il fato al padre tolto,
     E ’n troppo verde età cangiato il volto.

Questi havea le città tutte in dispregio,
     Lo splendor de gl’illustri, e de la corte,
     E ’l ricco havea lasciato albergo regio
     Per darsi à più tranquilla, e lieta sorte.
     La selva, e l’arte havea rustica in pregio,
     Ch’à l’empia ambition chiuggon le porte:
     E visto rare volte era fra suoi
     In cerchio star fra gli honorati heroi.

Ma se ben rozza l’arte hebbe, e ’l pensiero,
     Non hebbe ne l’amar rustico il petto:
     Ma da gentile, e nobil cavaliero
     Aperse il core à l’amoroso affetto.
     Per lo Cebrinio un dì giva sentiero
     Prendendo da la caccia il suo diletto,
     Et Eperia una Dea detta per nome
     Vide, ch’al Sol tendea le bionde chiome.

Tosto, ch’ ei volge il desioso sguardo
     Al nobil volto, e mira il suo splendore,
     Sente per gli occhi suoi passare il dardo
     Del Re de le delitie, e de l’amore.
     Non è verso la Ninfa à correr tardo
     Per isfogar con lei l’acceso core.
     Fugge la Dea dal minacciato strupo,
     Come suol cerva via fuggir dal Lupo.

Qual l’anitra, se lunge è da lo stagno
     Dove sole attuffarsi, e star sicura,
     Vien sopragiunta da l’augel grifagno,
     Più co’l fuggir, che puote, à lui si fura:
     Tal mentre à l’amoroso suo guadagno
     Intende il bel garzon con ogni cura,
     Eperia fugge, e per non farsi moglie,
     Più che può, con la fuga à lui si toglie.

Mentre la tema à lei, l’amore à lui
     Velocissimo il piè nel corso rende,
     Come al rio fato piacque d’ambedui,
     Co’l piè la bella Ninfa un serpe offende.
     Il serpe altier, che da gli oltraggi altrui
     Co’l velenoso morso si difende,
     Le porge il crudo morso, e in un baleno
     Imprime ne la piaga il suo veleno.

La fuga con la vita à un tratto manca,
     Tal fu il veleno del viperin serpente.
     Ei, che cader la vede essangue, e bianca,
     E mira il mal del velenoso dente,
     Alza la voce affaticata, e stanca
     Dal corso, e da la doglia, che ne sente.
     Ben stato è il primo amor misero mio,
     C’ha tal dat’alma ai sempiterno oblio.