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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/42

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     Fetonte la facciata altera vede,
     Che sotto à l’equator guarda à l’occaso,
     Non cura l’altre, e ben degne le crede
     Non men di quella, c’ha veduto à caso.
     Alza, e pon sù la ricca soglia il piede
     Da maggior cura spinto e persuaso,
     E vede il Sol nel suo seggio giocondo
     Vago di dar la nova luce al mondo.

À pena nel grande atrio entrò Fetonte,
     Che la luce del Sol ne gli occhi il fere,
     E per forza gli fa chinar la fronte,
     E l’ansioso suo passo tenere.
     Huomini, e donne assai leggiadre, e conte,
     Che lo stanno à servir, cerca vedere;
     E, per mirar quel, ch’à ciascun far tocchi,
     De le sue proprie man fa scudo à gli occhi.

Ne l’atrio il Sol s’adorna per uscire,
     Gli ammantan l’Hore il ricco vestimento.
     Queste fanciulle son, c’hanno il vestire
     Succinto per fuggir l’impedimento.
     Han l’ali, e par, che stian sempre per gire,
     E fan tutte le cose in un momento.
     Stannovi anchora, e servitù gli fanno
     Con gran prestezza il Giorno, il Mese e l’Anno.

Gli sta da la man destra una donzella,
     Ne mai sta, che non rida, giochi, ò balli.
     È la stagion, che verde ha la gonella
     Sparta di bianchi fior vermigli, e gialli.
     Di rose, e latte è la sua faccia bella;
     Son perle i denti, e le labra coralli:
     E ghirlande le fan di varij fiori
     Scherzando seco i suoi lascivi amori.

Una donna, il cui viso arde, e risplende,
     V’è, che di varie spighe il capo ha cinto,
     Con un specchio, ch’ al Sole il foco accende,
     Dove il suo raggio è ribattuto, e spinto.
     Tutto quel, che percote, in modo offende,
     Che resta secco, strutto, arso, et estinto.
     Ovunque si riverberi, et allumi,
     Cuoce l’herbe, arde i boschi, e secca i fiumi.

Stavvi un’ huom più maturo da man manca,
     Dio de i tre mesi, i quai precede Agosto;
     Che ’l viso ha rosso, e già la barba imbianca,
     E sta sordido, e grasso, e pien di mosto.
     Ha il fiato infetto, e tardi sì rinfranca
     Chi vien dal suo venen nel letto posto.
     D’uve mature son le sue ghirlande,
     Di fichi, e ricci di castagne, e ghiande.

Un vecchio v’è, ch’ogn’un d’horrore eccede,
     E fa tremar ciascun, ch’à lui pon mente.
     Sol per traverso il Sol tal volta il vede.
     Ei stà rigido, e freme, e batte il dente.
     È ghiaccio ogni suo pel dal capo al piede,
     Nè men brama ghiacciar quel raggio ardente;
     E nel fiatar, tal nebbia spirar suole,
     Ch’offusca quasi il suo splendore al Sole.

Un’ altro vecchio più grato, e più bello,
     V’è molto amato, e conosciuto poco.
     Ha l’ali, e vola ogn’hor, come uno uccello,
     E par, che non si mova mai di loco.
     Hor se ne sta col verno, hor col fratello,
     Hor con colei, c’ ha ne lo specchio il foco,
     Hor con l’allegra Primavera il vedi,
     Nè mai tien fermi i suoi veloci piedi.

Con qualunque si stia, vuol mangiar sempre,
     E cibi poco pretiosi gode.
     D’acciaio ha i denti, e di sì dure tempre,
     Ch’ogni spurcitia, ogni durezza rode:
     Par, che ’l ferro, e l’acciar divori, e stempre,
     E se si pon trovar cose più sode,
     Ma molto più si pasca, e si nutrichi
     Di statue rotte, e d’edifici antichi.

Se ben il Tempo è tanto ingordo vecchio,
     Ch’à lungo andare ogni cosa consuma,
     Egli è padre del vero, un lume, un specchio,
     Ch’ogni interno pensier scuopre, et alluma.
     Ha sì buon’ occhio, e sì sottile orecchio,
     Che non bisogna, ch’alcun si presuma
     Parlar mai sì secreto, ò mai far’ opra
     Sì sol, ch’egli non l’oda, vegga, e scuopra.