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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/43

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Ciò, che i secoli suoi gli dan davante,
     E i lustri, e gli anni, e i mesi, e i giorni, e l’hore,
     S’ingoia, insino al porfido, e ’l diamante,
     Non che ’l gaudio, e ’l dolor, l’odio, e l’amore.
     Trangugghia le scritture tutte quante,
     Mangia la gloria altrui, l’arme, e ’l valore:
     Sol tre libri v’ha salvi ornati d’oro,
     Incoronati di palma, e d’alloro.

Ha rosa à questo intorno la coperta,
     Ma la corona non ha punto guasta.
     S’ha mangiata la margine, e scoperta
     La lettera, ch’anchor dura contrasta.
     La scrittura si sta libera, e certa,
     Che ’l suo rabbioso dente non gli basta.
     Quivi son tutte l’opre de i migliori
     Filosofi, Poeti, et Oratori.

Guarda quei libri di mal’occhio il Tempo,
     E rodergli si sforza più che mai,
     Poi fra se dice, e verrà bene il tempo,
     Che di si saldi io n’ ho perduti assai.
     Questo non sarà già così per tempo,
     Nè le glorie già mai spegner potrai
     Di quei prudenti Principi, e discreti,
     Amici d’Oratori, e di Poeti.

Nè spegnerai, come di molti Heroi,
     L’invitto nome d’Henrico Secondo,
     C’ ha fatto l’alto Dio scender fra noi,
     Acciò che dia più bella forma al mondo.
     Cantan già molti i chiari gesti suoi,
     Con sì felice stile, e sì giocondo,
     Ch’à far, che restin divorati, e spenti,
     Ti varran poco i tuoi rabbiosi denti.

Con gli occhi il Sole, onde illumina il tutto,
     Onde scopre ogni dì tutte le cose,
     Vide il figliuol, che Climene ha produtto,
     Star con le luci basse, e vergognose;
     Ó figliuol, disse, e chi t’ha qui condutto?
     Chi tanto alto desir nel cor ti pose?
     Chi t’ha dato l’ardire, e chi ’l governo
     Di pervenire al bel regno paterno?

Ó padre, ei disse, s’ io non sono indegno
     Di poterti chiamar per questo nome,
     Per lo splendor ti prego illustre, e degno,
     Che nasce da le tue lucide chiome,
     Dammi qualche certezza, e qualche pegno,
     Onde si vegga manifesto, come
     Io sia vero à te figlio, à me tu padre,
     Nè m’habbia il falso mai detto mia madre.

Il Sol, ch’ intende quella intensa voglia,
     C’ ha fatto al figlio far sì gran viaggio,
     Per poter meglio à lui parlar, si spoglia
     Del suo più chiaro, e luminoso raggio.
     Nè basta, che l’abbracci, e che ’l raccoglia,
     E gli mostri nel viso il suo coraggio,
     Per dimostrar, ch’egli è sua vera prole,
     Disse lieto ver lui queste parole.

Non si potrà negar già mai Fetonte,
     Ch’un ramo tu non sia dell’arbor mio
     Per quel, che mostran l’animo, e la fronte,
     Che ti scopron figliuol d’un grande Dio.
     Non mente Febo, e Climene, et ho pronte
     Le voglie ad empir meglio il tuo desio.
     Chiedi pur quel, che più t’aggrada, e giova,
     Che di questo vedrai più certa prova.

Circa il proposto mio fermo pensiero
     Serva Palude stigia il tuo rigore;
     Voglio, perche ei non dubiti del vero,
     Ch’ in ciò mi leghi il mio libero core.
     De la proferta il giovinetto altiero,
     Troppo si confidò del suo valore,
     E disse un giorno voler’ esser duce
     Del suo bel carro, e de la sua gran luce.

Udito l’incredibile ardimento,
     Subito il padre si venne à pentire
     De la promessa e del gran giuramento,
     Che l’impediano à potersi disdire.
     Crollando il capo illustre, e mal contento
     Disse, ò figliuol, questo è troppo alto ardire;
     E se mancar potessi à i detti miei,
     Questa domanda sol ti negherei.