Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/425

Da Wikisource.

Lor fida compagnia la madre porse,
     Restar volle al governo ella del regno.
     Tosto, che ’l padre misero la scorse,
     Su l’ infelice altare arder fè il legno.
     L’occhio dal crudo foco ogni alma torse,
     Per non veder quel sacrificio indegno.
     Piange il ministro, e dalla à l’altar santo,
     E da gli occhi di tutti impetra il pianto.

Mossa Delia à pietà, che ’l foco splenda
     Per ardere una vergine si bella,
     Fà, ch’una oscura nube in terra scenda,
     Si che copra l’altare, e la donzella.
     La Dea fa poi, che seco il camin prenda
     In guisa tal, ch’alcun non può vedella.
     La guidò poi nel Daurico confino,
     E dielle in guardia il suo Tempio divino.

Dentro à la nube una cerva fu posta
     In luogo suo da la triforme Diva,
     La qual poi che la nube fu deposta,
     E vista fu da la cohorte Argiva,
     Vedendo, che colei, ch’al foco esposta
     Havean, non apparia morta, ne viva,
     Tenner, che la sorella di Minerva
     L’havesse trasformata in quella cerva.

Che per lo cervo già dal padre ucciso
     Volesse quella cerva in ricompensa.
     I Greci ringratiar con fido aviso
     De la selvaggia Dea la possa immensa.
     La ringratiar, ch’à lei cangiasse il viso
     Per involarla à l’empia fiamma accensa,
     E più, che vider verso il marin flutto
     Cessata la fortuna essere in tutto.

Come quieto il mar veggono, il vento
     Mille navi, e galee prendon da tergo,
     Per dar castigo al furto, e al tradimento
     Del fratel di colui, che si fe Mergo.
     E in breve d’arme adorni, e d’ardimento
     Prendon ne’ porti Frigij i Greci albergo,
     E i vecchi fan venir pallidi, e smorti,
     E rallegrare Hettor con gli altri forti.

Un’ altissimo luogo è in mezzo al mondo,
     C’ha per confin la terra, il mare, e ’l cielo,
     Che vede quei del regno alto, e giocondo,
     E quei, ch’unita han l’alma al carnal velo.
     Fra quei, che lo Dio scorge illustre, e biondo
     Star sotto l’equinottio, e sotto il gielo,
     Non può alcun dar si mute le parole,
     Che in questa regione il suon non vole.

La Fama s’ha quest’alto luogo eletto,
     E ne la maggior cima ha la sua corte.
     Forato ha in mille luoghi il muro, e ’l tetto,
     V’ha mille ampie fenestre, e mille porte.
     Quindi han mill’aure il passo entro al ricetto,
     Da cui sono à la Dea le voci scorte.
     Da tutte le città, sian pur remote,
     Tutte ivi scorte son l’humane note.

È di metallo schietto ogni sua parte,
     La scala, il tetto, il pavimento, e ’l muro.
     Diverse conche fabricate ad arte
     Vi stan di bronzo risonante, e duro:
     Le quai quel suon, che da mortai si parte,
     Ridicon tutto naturale, e puro.
     Come vien la parola, se ben mente,
     Da mille voci replicar si sente.

Non v’è silentio mai, non v’è quiete,
     Se ben mai non vi s’ode alto lo strido:
     Ma s’odon mormorar voci secrete
     Di taciturno in taciturno grido.
     Come l’onde del mar mormoran chete
     Ad un, che molto sia lontan dal lido:
     Come mormora il tuon quieto, e piano,
     Se Giove tuona in aria à noi lontano.

La Dea la nobiltà fa pria, ch’intende
     Quel, che ragiona il mondo di se stessa.
     La plebe ne la corte attenta apprende
     La favella d’altrui muta, e sommessa.
     Tosto, ch’un nobil ne la corte scende,
     Con vari accorti modi ogn’un s’appressa.
     Egli al più fido suo ragiona cheto,
     E ’l rende co’l suo dir turbato, ò lieto.