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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/432

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Lodaro il gran valore à parte à parte,
     Non sol de lor guerrier, ma de’ nemici;
     La fortezza de l’un, de l’altro l’arte,
     Di tutti il pregio onde son più felici.
     Disser quanto avantaggio ha, chi comparte
     Secondo è d’huopo gli ordini, e gli uffici.
     Ma ch’altro mai direbbe Achille altrui?
     Chi d’altro parlerebbe innanzi à lui?

Ma bene à par d’ogni altro fu lodato,
     Che difendesse la Troiana terra,
     Il gran figliuol del Re del mar fatato,
     Che fe si rare prove in quella guerra
     Senza giamai potere esser piagato
     Dal più fort’ huom, c’havesse allhor la terra.
     Lodar poi quel, ch’al fin trovò la strada
     D’usar seco la mazza, e non la spada.

Mentre stupor di quel prende ogni Argivo,
     Cui mandò Achille à l’ombre oscure, e felle,
     Che non potea restar del sangue privo,
     Per la virtù de la fatata pelle:
     Nestor, che di dugento anni era vivo,
     Et havea visto molte cose belle,
     Aprì con queste note il suo concetto,
     E lor di più stupor fe colmo il petto.

Nel vostro tempo sol se n’è visto uno,
     Che non potea dal ferro esser ferito;
     Costui fu Cigno, figlio di Nettuno,
     Cui diede Achille al regno di Cocito:
     Ma mentre in me quel pel fu vago, e bruno,
     C’hor di color di neve s’è vestito,
     Un ne vidi io sentir mille percosse,
     Senza che ’l corpo mai ferito fosse.

Costui nacque in Thessaglia Perrebeo,
     E giunto à l’età sua più verde, e bella,
     Per nome maschio il nominar Ceneo,
     Però che da principio ei fu donzella.
     Ben stupor prese il congregato Acheo
     Di quel, che dice l’ultima favella,
     E fe, che ’l prego à lui mosse ogni Duce,
     Che quest’altro stupor desse à la luce.

Ma sopra ogn’altro Duce il gran Pelide
     Si mosse con parole accorte, e grate,
     Verso colui, che due secoli vide,
     E ch’allora vivea la terza etate,
     Ó vecchio, à cui si largo il cielo arride
     L’età lunga, e robusta, e la bontate,
     Che la prudenza sei del secol nostro,
     Dinne la novità di questo mostro?

Dinne Ceneo chi fosse, e di cui nacque,
     Come fu donna, e poi prese altro viso;
     Conta à qual Dio di farli gratia piacque,
     Che ’l corpo non potesse esser reciso.
     Qual guerra te’l mostrò, chi fè, che giacque
     Morto, s’ei fu però d’alcuno ucciso.
     Mov’ei con gravitate il tardo accento,
     E fa con questa voce ogn’un contento.

Benche l’antica età, debile, e tarda
     Al vostro sia contraria, e mio desio,
     Che mi fa la memoria men gagliarda,
     E molte cose ha già poste in oblio:
     Pur quando la mia mente entro riguarda
     Ne l’arca, dove stà l’erario mio,
     Essempi senza fine anchor vi trova
     Di quei, che l’età mia vide più nova.

E ben convien, ch’una copia infinita
     V’habbia di cose fatte, udite, e viste,
     C’ ho visto già dal dì, ch’ io venni in vita,
     Dugento volte rinovar l’ariste.
     Vivo hor la terza età, che l’alma invita
     À lasciar queste membra afflitte, e triste.
     E da che gli anni il consentir, trovarmi
     Sempre cercai fra i cavalieri, e l’armi.

Fra le più belle imagini, che serba
     De la memoria mia l’annosa cella,
     Non ne rinchiude alcuna più superba,
     Ne più maravigliosa, ne più bella,
     Di quella, in cui l’età di Ceneo acerba,
     Fu fatta d’huom, dov’era di donzella.
     Hor poi, ch’al prego vostro il mio cor cede,
     Prestate à la mia lingua orecchia, e fede.