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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/453

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Ma dir tante parole indegno parme,
     Dove l’opra può far, che ’l ver risplenda.
     Mandinsi in mezzo à gl’inimici l’arme,
     E quivi si disputi, e si contenda.
     Di senno, e di valor, quivi ogn’un s’arme,
     Contra ogn’un, che le vuol l’acquisti, e prenda.
     E quel, che le riporta ove hora sono,
     Come huom di più valor, l’ottenga in dono.

Aiace al suo parlar fin dato havea,
     E s’era al mormorio del vulgo scorto,
     Che ’l Greco tribunal dar non potea
     Se non al cavalier d’Ithaca, torto.
     E però d’ascoltarlo ogn’uno ardea,
     Che sapean quanto era facondo, e accorto.
     Hor come si mostrò, tutto il consiglio
     Tese intento ver lui l’orecchie, e ’l ciglio.

Poi che tenuti alquanto i lumi intenti
     Hebbe con gravità chinati à terra,
     Gli alzò benigni, à quei Duci prudenti,
     Che davan legge à la Pelasga guerra.
     Poi con soave suon, con grati accenti,
     Con gran modestia il suo pensier disserra.
     E mentre usa artificio in ogni parte,
     Tien con grande artificio ascosa l’arte.

Prudenti Heroi, s’al mio desire, e al vostro
     Pietoso corrisposto havesse il fato,
     Dubbio hoggi non saria nel campo nostro,
     Chi di quell’arme andar dovesse armato.
     Ch’anchor godresti Achille il carnal chiostro,
     E tu de le tue insegne andresti ornato:
     Godresti tu de gli ornamenti tuoi,
     De la presenza tua godremo noi.

Hor poi che piacque al fato eterno, e santo
     Di por lo spirto tuo fra gli altri Divi
     Per far restare in sempiterno pianto
     Questi tanto di te devoti Argivi.
     D’un bianco vel fe in questo à gli occhi un manto,
     Quasi stillasser lagrimosi rivi;
     Et asciugati ben gli occhi, e le gote,
     Queste co’l primo dir congiunse note.

À chi darete voi l’arme d’Achille,
     Che più nel ver le merti di colui,
     Che sol nel campo Acheo fra mille, e mille
     Seppe Achille trovar per darlo à vui?
     Che s’ei concesse à le vostre pupille,
     Che contra il Re Troian vedesser lui,
     Soverchio guiderdon però non parme,
     S’ei, che tant’huom vi diede, ottien quell’arme.

Ne mi par che giovar debbia ad Aiace,
     S’egli ha l’ingegno, e’l dir men pronto, e vivo.
     Ne dee nocere à me, se più vivace
     Mi fe di spirto il Re superno, e divo.
     Non noccia à me quel don, che mi compiace
     Il ciel, se giova tanto al campo Argivo.
     E s’ ingegno, ò facundia in me si trova,
     Manchi d’invidia à me, poi ch’a voi giova.

Non debbe alcun mai ricusar quel bene,
     Che gli ha di qualche don gli spirti impressi:
     Però che gli avi illustri, e ciò, che viene
     D’altrui, non paion proprij di noi stessi.
     Ma poi, ch’Aiace à voi prova, e sostiene,
     Che per gli avi dal cielo à lui concessi
     Merta quell’arme haver; mostrarvi intendo,
     Che tanti gradi anch’ ei da Giove scendo.

Come ogn’un sà, Laerte è ’l padre mio,
     Laerte fu del forte Arcesio figlio.
     Arcesio prole fu del maggior Dio,
     Ne alcun di questi hebbe dal padre essiglio.
     E per la madre anchor sappiate, ch’ io
     Scendo dal Re de l’ immortal consiglio.
     Autolico à mia madre il carnal velo
     Formò, che figlio al nuntio fu del cielo.

Ma non mi vaglia già, se ben mia madre,
     Da maggior nobiltà trasse il parente;
     Ne men l’arme mi dia, l’esser mio padre
     Del sangue del fratel stato innocente;
     Vagliami il ben, ch’à le Spartane squadre
     Fei co’l valor del corpo, e de la mente.
     Quel, che fe più per lo Spartano impero,
     Fate di quelle insegne andare altero.