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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/470

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Non permette però l’eterno fato,
     Che co’l mancar de le Troiane mura
     Manchi la speme anchor di novo stato
     À chi da tanto mal salvo si fura.
     Enea poi c’hebbe in van molto pugnato,
     De gli Dei Frigij sol si prese cura,
     Co’l padre gli portò sopra il suo tergo,
     Per trovar loro un più felice albergo.

Con questo santo, e venerabil peso
     Con Ascanio per man suo picciol figlio
     Prende ver maggior gloria il core acceso,
     Da la sua patria volontario essiglio.
     Fugge dal Tracio mar, che da l’offeso
     Sangue di Polidoro anche è vermiglio;
     E co’l consiglio, e co’l voler del cielo
     Si lascia à dietro Antandro, e giunge à Delo.

Prende con tutta la sua classe il lido,
     Dove con volto grato, e liberale
     Raccolto fu dal Re nel regio nido
     Enea con ogni suo più principale.
     À Febo era ministro accorto, e fido,
     À gli huomini era Re giusto, e leale
     Anio pien di bontate, e pien di fede,
     Ch’allhora ivi tenea la regia sede.

Mostrò lor la città famosa, et alma,
     E i tempi tanto chiari illustri, e belli,
     E ’l loco, ove sgravò la carnal salma
     Latona dopo tanti aspri flagelli.
     Dov’hebbe da l’oliva, e da la palma
     Aiuto per dar fuora i due gemelli.
     E mostrò lor quei tronchi, ove s’attenne,
     Quando il gemino lume al mondo venne.

E per supplir d’ogni honorato officio,
     E per dar lor di se lodato essempio,
     Dov’era preparato il sacrificio,
     Con gran devotion tornaro al tempio.
     E poi che ’l bue dannato à tal supplicio
     Hebbe dal ferro pio l’ultimo scempio,
     Tornar, dove miraro in copia grande
     Fumar sopra le mense le vivande.

Poi ch’al bisogno lor hebber supplito,
     E satisfatto al gusto, et al diletto,
     E c’hebbe dato al liberal convito
     L’ultimo vino, e l’ultimo confetto;
     Anchise verso il Re santo, e gradito
     Alzò l’antico, e venerando aspetto;
     E con basso parlar, grave, e severo
     Cosi cercò saper d’un dubbio il vero.

Signor, se la memoria à me non mente,
     Un’altra volta, ch’ io di qui passai,
     Dove per tua bontà liberamente,
     Come hora fatto habbiam, teco albergai,
     D’un figlio, e quattro figlie esser parente
     D’ogni gratia, e beltà ti ritrovai.
     E perche gli anni assai dubbio mi fanno,
     Vorrei saper da te, se in ciò m’ inganno.

Disse crollando il Re l’ornata tempia.
     Se ben prudente Anchise il tuo desio
     Rinova la mia doglia acerba, et empia,
     E stà per farmi far d’ogni occhio un rio:
     Non vo restar però, che non adempia
     Per compiacer al tuo volere, e al mio.
     Da ch’io ti vidi, e, ch’io presi ad amarti,
     Hebbi sempre desio di satisfarti.

Con cinque figli già tu mi lasciasti,
     Se ben quasi hor mi vedi orbato, e solo:
     Che ’l figlio stà lontan, che vi trovasti ,
     Ne può dar refrigerio al patrio duolo.
     Le figlie, che cotanto mi lodasti,
     Come al ciel piacque, andar per l’aria à volo.
     E ti vo dir quel, che di tutto avenne,
     E come, e per qual via vestir le penne.

Al figlio, c’hoggi in Andro ha ’l regio manto,
     Da cui l’isola ha preso, e serba il nome,
     Mostrò de’ sacri augurij il rito santo
     Lo Dio da le più ricche, e illustri chiome.
     Pur’ egli à me non è cagion di pianto,
     Ch’oltre ch’ ivi sostien le regie some,
     Ha in guardia anchor lo spiritale honore,
     E vi sta con grandezza, e con favore.