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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/469

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Con lieto volto il Re del ciel consente
     À chi serva il confin fra ’l chiaro, e l’ombra.
     Fatto intanto del figlio il rogo ardente
     Di fumo d’ogn’ intorno il cielo ingombra.
     Cosi il fiume il vapor fa alzar sovente
     In aere, e di tal nebbia il mondo adombra,
     Co’ giri suoi caliginosi, e tetri,
     Che non lascia, che ’l Sol quà giù penetri.

La lucida favilla, e ’l fumo oscuro
     Vola ver le contrade alte, e gioconde.
     Il raggirato poi fumo vien duro,
     E ’n mezzo al corpo il vivo ardor nasconde.
     Quel lume, che ’l foco ha vivace, e puro,
     In ogni parte à l’anima risponde.
     Già nel fumo aggirato, e in un raccolto
     Appar nova figura, e novo volto.

Già rassembra un’ augello à l’altrui lume,
     Già spiccato dal fumo è vero augello.
     L’agilità, che ’l foco ha per costume,
     Onde s’inalza al regno eterno, e bello,
     Passata è ne le penne, e ne le piume,
     E ’l fan levare al ciel veloce, e snello.
     Intorno al rogo hor gira, hor sale, hor scende,
     E novo augel, che l’accompagni, attende.

De la prima favilla ogni sorella
     Nel revoluto fumo un’alma informa.
     Da questo, e da quel lato esce una ascella,
     Fin che di vero augel mostra la forma.
     Quante scintille alzar fa la facella,
     Tante in augelli il fato ne trasforma.
     Nel modo stesso in aere in un momento
     Se ne veggon formare, e cento, e cento.

Sì gran numero al ciel se’n vede asceso,
     Che fan quasi oscurar ne l’aere il giorno.
     Fan sopra mille giuochi al rogo acceso,
     Indi il giran tre volte intorno intorno.
     Tre volte il grido lor fan, che sia inteso
     Insino al piu beato alto soggiorno.
     L’essercito in due campi poi si parte,
     E forman le battaglie al fiero Marte.

Indi crudeli ad affrontar si vanno,
     E con gli urti, e co’ rostri, e con gli artigli,
     Et ogni estrema ingiuria empi si fanno
     Del bruggiato Mennone in novi figli.
     Tanto che molti con disnore, e danno
     Del proprio sangue lor cadon vermigli.
     E fan l’essequie con la lor tenzone
     A la cognata polve di Mennone.

E, perche in mente han quanto ardito, e forte
     Fosse il lor genitore, han tanta gloria,
     Che vanno altieri ò per haver la morte,
     Ó per goder l’honor de la vittoria.
     E per mostrar di lor cangiata sorte
     À quei, che verran poi, la vera historia,
     Dal padre, onde impetrar l’aeree some,
     Vollero anche impetrar l’honor del nome.

Mennonide fur dette, e poi che ’l rostro,
     E l’unghia, e l’urto lor non fe più guerra,
     Portar co’l volo il lor corporeo chiostro
     Ver donde il nero soffio Austro disserra.
     Ma poi che quel, che d’oro adorno, e d’ostro
     Suol del giorno ogni giorno ornar la terra,
     Fornì verso oriente il proprio giro,
     Ritornaro al sepolcro, onde già usciro.

Dove l’urto di novo, il rostro, e l’ugna
     Vanno à investir le già divise squadre:
     Et ogni augel, che cade, e, che s’espugna,
     Dan per essequie al tumulo del padre.
     Tornano ogni anno à far la stessa pugna,
     Ma non però la sconsolata madre,
     Se ben tanto da Giove ottenne honore,
     Potè dar refrigerio al suo dolore.

Tal che se ’l fato d’Hecuba infelice
     Il pianto da l’Aurora non ottenne,
     Fu, ch’à la sconsolata genitrice
     Il figlio morto suo pianger convenne.
     E tanto più, che da la man vittrice
     D’Achille poco pria tal caso avenne.
     Lagrima anc’hoggi, e sparge ogni contrada
     Di pretiosa manna, e di ruggiada.