Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/468

Da Wikisource.

Un tempo poi co’l trasformato aspetto
     Andò per le Bistonie empie contrade,
     Con l’ululato, e co’l canin dispetto
     Piangendo tanta sua ruina, e clade.
     E non il Frigio sol, ma ’l Greco petto
     Tanta calamità mosse à pietade.
     Ne mosse i petti sol del nostro mondo,
     Ma l’alme de l’imperio alto, e giocondo.

Talmente à tutta la celeste corte
     La madre fa pietà di Polissena,
     Ch’anchor Giunon, ch’odia i Troiani à morte,
     Può tener, che non cada il pianto, à pena.
     E prova, e tien, ch’à la regal consorte
     Di Frigia fosse troppo acerba pena.
     L’Aurora, sol fra tanti eterni Numi,
     Non stillò per tal caso in pianto i lumi.

Non perc’ habbia piacer, che ’l sangue muoia
     Di Priamo, anzi fu sempre in suo favore;
     Ma ’l suo particular tormento, e noia
     Non lascia, ch’à l’altrui pensi dolore.
     Non ha visto bruggiar, ne cader Troia,
     Ne men d’Achille al funerale honore
     Polissena cader, ne la sua madre
     Latrar con ira à le Tracensi squadre.

Quel mal, che la tormenta, anzi l’ancide,
     E da l’altrui dolor la toglie, e cura,
     È, che per man de l’ inclito Pelide
     (Mentre l’humana anch’ei gode natura)
     Cadere un suo figliuol estinto vide,
     Ch’era in favor de le Troiane mura.
     E l’alma vista, onde la luce apporta,
     Le venne in un balen pallida, e smorta.

Ne da quel punto in quà lieta mai venne,
     E solo al lagrimare il figlio intese.
     E se ben poi da Giove in gratia ottenne,
     Ch’altro honore, altra forma il figlio prese,
     Se bene il vide al ciel batter le penne,
     Non però punto lieto il cor le rese.
     Ma tanto in preda al lagrimar si porse,
     Che il mondo andò in ruina, e non lo scorse.

Già de l’Aurora nacque, e di Titone
     Costui, che da Pelide restò vinto.
     E fu da padri lor detto Mennone.
     Hor tosto, che la madre il vide estinto,
     Verso il maggior fratello di Plutone,
     Di duolo havendo il bel viso dipinto,
     Spiegò le penne, e giunse al maggior Nume
     Pria, che battesse il rogo al Ciel le piume.

E sparsa il crine, e lagrimosa il viso,
     Chinata le ginocchia, alzata il ciglio,
     Con questo accorto, e gratioso aviso
     Cerca d’ impetrar gratia al morto figlio.
     Io chieggio, ò sommo Re del paradiso,
     Aiuto à tuo santissimo consiglio.
     Io, che fra gli altri Dei minima sono,
     (Son Dea però) ti chieggio in gratia un dono.

Non per haver dal tuo santo giudicio
     Maggior honore à miei tempi, et altari;
     Non per haver dal mondo il sacrificio,
     Con pompa, e doni pretiosi, e rari:
     Ma vengo per supplire al santo officio,
     Che dee la madre à figli amati, e cari.
     Achille, come à voi già tutti piacque,
     Hoggi ucciso ha Mennon, che di me nacque.

Andò pur dianzi à la Troiana guerra,
     Per dare al miser zio soccorso in vano,
     Là dove Achille il fier, ch’ogn’altro atterra,
     Gli fe cader senz’alma il corpo humano.
     Hor perche vuol di lui cenere, e terra
     Far la vorace forza di Vulcano,
     Io non vorrei veder tanto valore
     Poca polve restar, senz’altro honore.

E ben che donna io sia, son pure io quella,
     Che pongo il proprio termine à la notte.
     Con l’alba, ch’ogni dì porto novella,
     Fo le tenebre sue rimaner rotte.
     E ben per la mia prole amata, e bella
     Pria, che le membra in polve habbia ridotte,
     Dovrei tal gratia haver dal maggior Dio,
     Ch’alleggerisse alquanto il dolor mio.