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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/486

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libro

Tosto, che Circe la fanciulla scorge
     Senza una parte de le membra humane,
     Scoperta al marin Dio preghi gli porge,
     Che la forma d’amor resti d’un cane
     Piange lo Dio marin, come s’accorge
     De l’altre membra sue biformi, e strane;
     Sprezza, e fugge la maga empia, e superba,
     Che troppo usò crudel l’incanto, e l’herba.

Si scusò con la Ninfa, e le scoperse,
     Che l’empia Circe infette havea quell’acque,
     Ma ben si vendicò, come s’offerse
     Il tempo, e ben più d’un morto ne giacque.
     Che Greci assai di quei nel mar sommerse,
     A cui seguire il saggio Ulisse piacque,
     Che Circe à Ulisse poi l’amor rivolse,
     E Scilla molti à lui compagni tolse.

Ne men d’ira, e di rabbia allhor s’accese,
     Che ne legni di Enea le luci fisse,
     Ne men de gli altri sprofondargli intese,
     Che pensò de l’armata esser d’Ulisse.
     Ma qual fosse lo Dio, che tal la rese,
     Perche si rio pensier non s’esseguisse,
     Mentre che mover volle il nuoto, e ’l passo,
     Sopra lo stesso mar divenne un sasso.

Mostra nel volto anchor lo stesso sdegno,
     E lo stesso nocchiero anchor lo schiva.
     Lo schiva Enea, ch’aspira al Latio regno,
     Indi Cariddi, e al mar Tirreno arriva.
     Ma subito gli toglie ogni disegno
     Il crudo tempo, e de l’Italia il priva.
     Lo spinge il tempo, ove Didone ha cura
     Di formare à Carthagine le mura.

Là dove Citherea fe il suo Cupido
     Trasformare in Ascanio à questo effetto,
     Per fare accender l’infelice Dido,
     La qual fe con Enea comune il letto.
     Ma tosto per passare al Latio lido
     Enea privò Didon del suo cospetto.
     Ella ingannata anchor mancò di fede,
     E se medesma al ferro, e al foco diede.

Temendo il saggio Enea nove tempeste
     Verso il Sicanio sen drizza la prora.
     Dove dal fido ricevuto Aceste,
     Del padre Anchise il pio sepolcro honora.
     Fatte le pompe poi sacre, e funeste,
     Havendo al suo camin propitia l’ora
     Si lascia à dietro Hippotada, e quel loco,
     La cui sulfurea vena essala il foco.

Dritto à Maestro poi tanto si tenne,
     Che in breve tempo Pithecusa vide.
     Dove à Cercopi un malo incontro avenne
     Per le lor lingue perfide, et infide.
     Ciascun di loro un’altra forma ottenne
     Dal gran rettor de l’alme eterne, e fide.
     Furo in disgratia al Re del sommo choro
     Per lo pergiuro, e per la fraude loro.

Tutto era falsità, tutto era inganno
     Quel, che di bocca à rei Cercopij uscia.
     Ne solo osaro à gli huomini far danno
     Co ’l lor pergiuro, e con la lor bugia;
     Ma contra il Re, c’ha il più sublime scanno
     Ne la celeste, e santa monarchia,
     Provare osar la lor frode, e menzogna,
     Ma con perpetuo lor biasmo, e vergogna.

Giove, ch’odia tal lingua empia, e pergiura,
     Fa si, che ’l volto human da lor si parte.
     E per mostrar la lor prima natura,
     Mentre fa trasformargli, usa tant’arte,
     Che la presa da lor nova figura
     A la forma de l’huom simiglia in parte.
     Non ha più il corpo lor l’humane membra,
     Ma più d’ogn’altro bruto à l’huom rassembra.

Si fa più breve il corpo, e più raccolto,
     E di crespe senili empie le gote.
     Il naso si ritira entro nel volto,
     E se ben non ha più l’humane note,
     Se ben l’ammanta un pel ruvido, e folto,
     Studia d’imitar l’huom via più, che puote.
     Ma in vece del parlar pergiuro, e infido
     Può dar solo il lamento, e ’l roco strido.