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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/485

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quartodecimo. 237

Prima farà del sasso adamantino
     Scarpel di piombo statue illustri, e conte;
     Di cedri, aranci, e palme il giogo Alpino,
     E non di neve, ornata havrà la fronte;
     E ’l fiume à l’erta andrà su l’Apennino
     Per trovar la quiete in cima al monte,
     Che bellezze giamai d’altra donzella
     L’alma di novo amor mi faccia ancella.

Sdegno non è, ch’à quel possa agguagliarsi,
     Ch’in un cor feminil nascer si vede,
     Quando da chi desia, vede sprezzarsi,
     Essendo ella colei, che l’huom richiede.
     S’arma, subito irata à vendicarsi:
     Ma ’l troppo amor però non lo concede,
     Ch’offender possa quel per cui sospira,
     Onde rivolge altrui lo sdegno, e l’ira.

Tutto volge à colei l’ira, e lo sdegno,
     Ch’al marin Nume il core accende, e piaga.
     E tutta in opra pon l’arte, e l’ingegno
     Per farla meno amabile, e men vaga.
     Osserva à tempo ogni Pianeta, e segno,
     Ed ogni opra propitia à l’arte maga;
     E pesta (mormorando i propri carmi)
     L’herbe, che fan mestier ne’ cavi marmi.

Poi c’hebbe pesta, e tolto il succo à l’herba,
     E postesi le vesti, infauste, e nere,
     Uscì de la sua corte alta, e superba
     Fra mille, e mille adulatrici fiere.
     L’afflitto Dio da la sua pena acerba,
     Che non sà il suo pensier, si stà à vedere.
     La scorge al fine entrar su ’l marin flutto,
     E correr per lo mar co ’l piede asciutto.

Lo Dio ne l’onda anch’egli entra marina,
     Che veder brama il fin del suo pensiero,
     E per tutto, ove il passo ella incamina,
     Segue l’acceso Dio non men leggiero:
     Al fine incontro al muro di Messina
     La maga pon la meta al suo sentiero.
     Quivi l’irata Dea ritenne il passo,
     Dove cavata havea l’onda un gran sasso.

In questo sen di mar cinto d’intorno
     Da cavi sassi andò la maga à porse.
     Dove, quando era il Sole al mezzo giorno,
     E fea l’ombra minor gir verso l’Orse,
     Solea talhor colei farsi soggiorno,
     Cui per mal di ambedue Glauco già scorse.
     Là dove entrata, e sciolta il crine e ’l manto,
     S’aggira intorno, e dice il mago incanto.

Poi che di succhi, e d’herbe velenose
     Scorse infettate à pieno haver quell’onde,
     A gli occhi de lo Dio marin s’ascose,
     Senza partir però da quelle sponde.
     Ne molto andò, che ignuda ivi si pose
     Per far le membra sue purgate, e monde
     Scilla, e per torsi al sol, poi ch’esser giunto
     Fra la sera, e ’l mattin lo scorse à punto.

Si bagna à pena Scilla entro à quel lago,
     Lo qual pur dianzi havea la maga infetto,
     Che l’iniquo veleno, e ’l verso mago
     Comincia à fare il suo crudele effetto.
     Quel corpo, c’havea pria si bello, e vago,
     Diviene un schivo, e mostruoso obbietto.
     E già nel fianco, e nelle basse membra
     In ogni parte à Cerbero rassembra.

Ella meglio vi guarda, e anchor no ’l crede,
     E ’l pel tocca, e la pelle hirsuta, e dura.
     Ma quando chiaro al fin conosce, e vede,
     Che tutta è can di sotto à la cintura,
     Si straccia il crine, e ’l volto, e ’l petto fiede,
     E tale ha di se stessa onta, e paura,
     Che fugge il novo can, seco s’adira,
     Ma fugga ovunque vuol, dietro se ’l tira.

Per lo mar, per gli scogli, e per la sabbia
     Sdegnata il nuoto, il salto, e ’l corso stende,
     E tanto più d’ira maggior arrabbia,
     Quanto più nel suo can le luci intende.
     Serba lo stesso ardor, la stessa rabbia,
     Onde si tosto il can d’ira s’accende.
     Dove al fin fe di cane i piedi, e ’l tergo,
     Si torna, e quivi il proprio elegge albergo.