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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/484

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libro

Fra quanti mai gustar la pena acerba
     D’Amor, non v’è chi ben sappia, com’io,
     Quanto sia grande la virtù de l’herba,
     Per quel, ch’io ne provai nel corpo mio.
     Però che la virtù, ch’ivi si serba,
     Mi fe d’un’huom mortal venire un Dio:
     Non però le conosco, e son venuto
     A te, che ne sai l’arte, per aiuto.

Scorrendo, come soglio, la marina,
     Pur dianzi al lito Italico io mi porsi,
     Là dove incontro al muro di Messina
     Scilla nomata una fanciulla scorsi,
     D’una beltà si rara, e si divina,
     Ch’à quante ne fur mai, puote antiporsi.
     Tanto, ch’à pena in lei fermai lo sguardo,
     Che in me s’accese il foco, ond’arsi, et ardo.

Ogni dolce parola, e grato invito
     Mossi ver lei con ogni humano affetto.
     M’offersi per amante, e per marito,
     Di far comun con tutti i beni il letto.
     Ne però volle mai prender partito
     D’unirsi meco al coniugal diletto:
     Anzi fuggendo ogni promessa gioia,
     Mostrò me co’ miei preghi havere à noia.

Hor tu, se qualche forza è nell’incanto,
     Ó se pur l’herba in questo è più efficace,
     Compiaci al prego mio, fa per me tanto,
     Ch’io la disponga à l’amorosa pace.
     Non prego già, che tu per tormi il pianto
     Scacci da me l’ardor, che mi disface:
     Ma ben, che in mio favore oprar ti piaccia,
     Ch’ella di me s’accenda, e mi compiaccia.

In quanti luoghi mai girando apparse
     Il bel Pianetta, che distingue l’hore,
     Non vide alcuna mai più pronta à darse
     Di Circe in preda à l’otioso amore.
     Si tien, che Citherea per vendicarse
     Contra il suo, che l’offese, genitore,
     L’accese il cor di si lascive brame,
     Per fargli anchor quest’altra figlia infame.

La maga havea lo Dio marino à pena
     Visto, e sentito il suo dolce lamento,
     Che punta fu da l’amorosa pena,
     E per lui novo al cor sentì tormento.
     Dunque per far, che la carnal catena
     L’unisse à lei, cosi mosse l’accento.
     Degno non è, ch’altrui tu porga preghi,
     Ma ben, ch’ogni alta Dea te brami, e preghi.

Se Scilla fugge te, dei fuggir lei;
     Sprezzar la sua beltà, s’ella ti sprezza.
     E s’alcun’altra t’ama, amarla dei,
     E stimar chi la tua stima bellezza.
     Io t’amo, volentier da te torrei
     Quel dolce ben, che piu in amor si prezza.
     Hor se dunque hai chi del tuo amor si strugge,
     Ama chi t’ama, e fuggi chi ti fugge.

Ecco io, che l’arte maga à pieno intendo,
     Che sò si bene usar l’herbe, e gl’incanti,
     Che da quel chiaro Dio del ciel discendo,
     Che tutti i lumi alluma eterni, e santi:
     Al cupido amor tuo pronta mi rendo,
     E te de l’onde Dio scelgo fra tanti.
     Deh fa, volgendo à me le voglie tue,
     Con un sol fatto il debito ver due.

Glauco, che da la maga istessa intende,
     Ch’ei l’ha co ’l suo bel guardo arsa, e ferita;
     E quel, ch’ella vorria, nel cor ne prende
     Non senza gran cagion doglia infinita.
     Che sà, che per lo fin, ch’ella n’attende,
     Non è ne l’amor suo per dargli aita.
     Hor per torle ogni speme, e per ritrarla
     Dal suo novo desio, cosi le parla.

Mi stà talmente impressa in mezzo al core
     L’imagin di colei, di cui t’ho detto:
     Che m’hai da perdonar, s’à novo amore
     Non posso dare albergo entro al mio petto.
     Si vedrà pria la tortora, e l’astore
     Unirsi insieme al coniugal diletto;
     E fare insieme il nido, i figli, e l’ova,
     Che mi scolpisca il cor bellezza nova.