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LIBRO QUARTODECIMO
Spinto dal novo amor, verso occidente;
E lascia à man sinistra à dietro il monte,
Onde essala Tifeo la fiamma ardente,
E i campi, che non mai gli oltraggi, e l’onte
Sentir del crudo aratro, ò del bidente.
Dove condusser tanti al punto estremo
I fratelli empi, e rei di Polifemo.
Giunge poi dove il mar continuo stride,
Dove già il terremoto aprì la terra.
E ’l regno Ausonio, e ’l Siculo divide
Co ’l maligno canal, ch’ivi si serra.
Indi à man destra il bel paese vide,
Dove la manna il ciel benigno atterra.
Lasciando à dietro poi la bella, e vaga
Costa Partenopea, giunge à la maga.
Passa la prima, e la seconda porta,
E de la fata illustre à servi chiede
Fin ch’in un prato, ov’ella si diporta,
Giunge, e fa riverente il ciglio, e ’l piede.
Poi che da Glauco, e da la maga accorta
Il saluto reciproco si diede,
Lo Dio marin co ’l volto afflitto, e mesto
Cosi il bisogno suo fe manifesto.
Ben mostra il tuo sublime, e chiaro ingegno,
Circe, che l’alma tua fra noi discende
Da quello illustre Dio splendido, e degno,
Dal quale ogni altro lume il lume prende.
Da quel, che co ’l montar di segno in segno
Il giorno, e la stagion varia ne rende.
Ben le tue maraviglie uniche, e sole
Mostran, che vera sei figlia del Sole.
Tu de le stelle intendi il vario corso,
E sai quel, che l’incanto, e l’herba vale.
Però rimedio à te chieggo, e soccorso,
Che puoi dar solo aita al mio gran male.
Il tuo prudente, e magico discorso
Può sanare ogni piaga aspra, e mortale
Pietà pietà del mio misero core,
Cui pur dianzi lo stral piagò d’Amore.