Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/488

Da Wikisource.

E per mostrar, che ’l mio parlar non mente
     Nel raccontar quanto io t’ammiri et ami,
     Se qualche gran desio t’ange la mente,
     Fammi saper qual don più cerchi et brami,
     Che giuro per quel torbido torrente,
     Che lega d’insolubili legami
     Gli eterni Dei, che, se scopri il tuo intento,
     Ti farò d’ogni gratia il cor contento.

Io, che ’l gran giuramento odo, che ’l lega,
     Che d’ogni don, ch’ io bramo, à gradir m’ habbia,
     Mentre il mio lume il guardo à terra piega,
     Vede un monton di ben minuta sabbia:
     Io n’empio il pugno, e mentre anchor mi prega,
     Al don, ch’ io bramo havere, apro le labbia,
     Tant’anni bramo unito il corpo à l’alma,
     Quanti ho grani di polve in questa palma.

Misera me, non seppi il dono usare
     Del biondo Dio, che ’l tempo ne governa:
     Che se saputo havessi io dimandare,
     Viver fatto m’havria giovane eterna.
     Ottenni il don, ne volli contentare
     Lo Dio de la maggior luce superna.
     Et egli à fin ch’al suo voler mi pieghi,
     Cosi di novo à me porge i suoi prieghi.

Habbi pietà de miei noiosi affanni,
     Che la gratia, c’hai chiesta, è breveé e nulla:
     Ma quando riparar voglia à miei danni,
     Farò, che tu vivrai sempre fanciulla.
     Quando sarai discosta oltr’à cent’anni
     Dal primo dì, ch’entrasti ne la culla,
     Se ben la mia promessa io terrò ferma,
     Vecchia vivrai disutile, et inferma.

Era allhor ne l’età più verde, e bella
     Passato il terzo lustro havea di poco;
     E mi sentia disposta, agile, e snella
     Tutta vivacità, tutta era foco.
     Tal che di Febo il priego, e la favella,
     Sprezzai, ne à l’amor suo volli dar loco.
     Che l’età, dove allhora io mi trovai,
     Credea, che non dovesse finir mai.

Cosi sprezzando il don del biondo Dio,
     Mi stei senza consorte, e senza amante.
     Ma già quel vago, e raro aspetto, ond’ io
     D’amore accesi l’alme eterne, e sante,
     S’è via fuggito, e ’n questo stato rio
     Mi trovo inferma, debile, e tremante.
     E quel, che fa peggior l’empia mia sorte,
     È, ch’io son molto lunge da la morte.

Mi convien pria, misera me, soffrire,
     Quel mal, che m’ ho cercato da me stessa.
     Mi convien quella età prima finire,
     La qual dal biondo Dio mi fu promessa.
     Da settecento verni ho visto uscire
     L’horror, che tien dal giel la terra oppressa,
     Non però in terra il tempo mi risolve,
     Ch’io domandai mill’anni in quella polve.

Conviemmi anchor veder trecento volte
     Dal maggior caldo maturar la biada
     Pria, che mi sian le forze in tutto tolte,
     E che ’l mio corpo estinto in polve cada.
     Soffrendo intanto io me n’andrò le molte
     Pene, che darne à la vecchiezza aggrada;
     Fin che ’l corso del ciel meni quell’anno,
     Ch’ultimo trar mi dee di tanto affanno.

Ben anch’io porrò fine al lungo pianto,
     Ben quel tempo verrà, c’ho tanto atteso;
     Ben vedrò questo mio terreno manto
     Ridotto à si deforme, e picciol peso:
     Ch’alcun non vorrà mai creder, che tanto
     Fosse di me lo Dio del tempo acceso.
     Anzi ei dirà (vedendomi si trista)
     Di non m’ haver giamai bramata, ò vista.

Il tempo, che va via lieto, e veloce,
     Se ben noioso à me pare, e senz’ale,
     Ch’à l’huom, mentre declina, ogni hor più noce,
     Verrà à ridur questo mio corpo à tale,
     Che non mi resterà se non la voce,
     Che sol servarmi il ciel vuole immortale.
     Vorrà, perche ’l mio oracol non s’estingua,
     Ch’io parli senza corpo, e senza lingua.