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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/489

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quartodecimo. 239

Fe de la donna il dir grato, e facondo,
     Che con minor fatica Enea pervenne
     Da l’atra notte al dì chiaro, e giocondo,
     E giunto à Cuma, al tempio il camin tenne.
     Dove per farsi ’l Re del ciel secondo,
     Quel santo officio fe, che si convenne.
     Quindi scese in quel lito almo, e felice,
     A cui diè nome poi la sua nutrice.

Nel porto, che Gaieta poi si disse
     Da la nutrice del pietoso Enea,
     Un de compagni ritrovar d’Ulisse,
     Che da Nerito origine trahea.
     Costui, che Macareo fu detto, fisse
     Le luci in un di quei, che seco havea
     Il buon Troiano, e poi che conosciuto
     L’hebbe, gli diede il debito saluto.

Già quando i Frigij costeggiar quel sito,
     Dove tenersi suol Sterope, e Bronte,
     S’udir pregar da un’huom ch’era su ’l lito.
     Deh per pietà gittate in terra il ponte,
     Si ch’io non sia da quei mostri inghiottito,
     I quali han solo un occhio ne la fronte.
     Enea mosso à pietà fe, che ’l meschino
     Montò con gli altri suoi su ’l Frigio pino.

E se bene esser Greco il vide, e intese
     Di quei, ch’al Frigio sen fer tanto danno:
     Fu però verso lui dolce, e cortese,
     E volle udire il suo passato affanno.
     E poi che tutto il mal gli fu palese
     Del superbo Ciclopo, empio, e tiranno,
     Hebbe del suo gran mal pietà maggiore,
     E gli fe à suo poter gratia, e favore.

Come smontò Achemenide su ’l porto
     (Cosi il nomar) co ’l principe Troiano,
     Ch’ogn’un credea, che divorato, e morto
     Fosse stato dal mostro empio Sicano;
     E dal compagno fu d’Ulisse scorto,
     Dopo il saluto debito, et humano,
     Dopo l’abbracciamento amico, e fido,
     Si fe da tutti udir con questo grido.

Qual fortuna, Achemenide, ò qual Divo
     Ó da gli amici lagrimato tanto,
     Ti fa vedere à le mie luci vivo,
     Che t’han per morto sospirato, e pianto?
     Ond’è, ch’essendo tu del campo Argivo
     Di quei, ch’à Troia dier l’estremo pianto,
     Su l’armata Troiana il corso prendi,
     E come, e dove andar con essi intendi?

Dapoi c’hebbe Achemenide risposto
     Co i proprij modi, e i proprij abbracciamenti,
     Di satisfare à lui pronto, e disposto
     Compiacque al suo desir con questi accenti.
     Tornar possa di nuovo, ove nascosto
     Io temea già di Polifemo i denti;
     Riveder possa il mostro infame, e rio,
     S’io amo meno Enea del padre mio.

Possa io l’empie veder di novo labbia
     Di sangue satollarsi, e carne humana;
     Di novo anchor da la sua cruda rabbia
     Fugga io per la contrada empia Sicana,
     S’à questa nave ho meno amor, ch’io m’habbia
     A l’Itacense mia paterna tana;
     Se questa classe à me non è più grata
     Di quella, che conduce Ulisse armata.

Se tanto il pio Troiano amo, et ammiro,
     Giusta, e degna cagion mi move à farlo:
     Che s’io, come tu fai, parlo, e respiro,
     Per dono, e gratia sua respiro, e parlo.
     Se ’l cielo, e lo splendor del giorno io miro,
     Sol per la sua pietà posso mirarlo:
     Ne quando à mio poter faccia ogni officio,
     Basto à supplire à tanto beneficio.

Ei fu cagion, che ne l’ingorda gola
     Di Polifemo io non restali sepolto,
     Poi che de la sua luce unica, e sola,
     Il nostro Capitan gli privò il volto.
     E mentre la memoria non m’invola
     Il fato, ò l’anno rimbambito, e stolto,
     L’havrò sempre nel cor, ch’io son sforzato,
     Mentre me ne ricordo, essergli grato.