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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/491

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quartodecimo. 240

Di quel tempo, ch’io vidi, mi sovenne,
     Che sei de nostri il crudel mostro prese,
     E sopra il miser lor corpo si tenne,
     E la sua crudeltà mi fe palese.
     Perche non solo à divorar lor venne
     La carne, che più morbida s’arrese;
     Ma ruppe l’ossa già scarnate, e volle
     Suggersi anchora insino à le medolle.

Io me ne stava pallido, e discosto,
     Mirando uno spettacol si spietato.
     Poscia ebro il vidi, e co ’l soverchio mosto
     Tutto il cibo dar fuor, c’havea mangiato.
     Cosi stando da lui lunge, e nascosto
     In me stesso fingea lo stesso fato.
     Pareami al crudel mostro esser fra denti,
     E gli stessi sentir stratij, e tormenti.

Cosi per molti giorni ascoso andai,
     Pascendo d’herbe, e ghiande il mio digiuno,
     E ad ogni vil moto dubitai
     Di non farmi esca al suo dente importuno.
     Quando il mio pover manto io rimirai,
     Stracciato hora dal rovo, hora dal pruno,
     Con spine, onde à le sue piaghe sovenni,
     La mia misera vesta unita tenni.

Me ’n gia la barba, il mento, e ’l crine incolto,
     Nascondendomi à lui fra ’l cerro, e ’l faggio:
     E veramente il fosco habito, e ’l volto
     Mi fean parere in tutto un’huom selvaggio.
     Ben vidi spesse volte al mar rivolto
     Andar molti navilij al lor viaggio.
     Et accennai co ’l panno, e con la mano,
     Che volesser salvarmi, e sempre in vano.

Passato un lungo tempo, un lungo affanno,
     Questa nave, che vedi, à caso scorsi,
     E co i cenni, che diè la mano, e ’l panno,
     La mossi à piéta, e cauto al lito corsi.
     E per liberar me da tanto danno
     Sol vidi lei dal suo viaggio torsi,
     La nave Frigia à me sol fe tragitto,
     E sola diè ricetto al Greco afflitto.

Si che s’io seguo le Troiane antenne,
     S’essalto il forte Enea, l’amo, e l’ammiro,
     N’ho ben ragion, s’à liberarmi ei venne,
     Se per la sua pietà veggo, e respiro.
     Ma dimmi tu quel, che de nostri avenne,
     Poi che dal crudel mostro si fuggiro,
     Bramo saper d’ogn’un quel, che seguisse,
     E molto più del Signor nostro Ulisse.

Poi che ’l grato Achemenide hebbe esposto,
     Com’egli si salvò da Polifemo,
     Cosi da Macareo gli fu risposto.
     Poi che fuggimmo in Etna il danno estremo,
     A tanti altri infortunij sottoposto
     Fu ciaschedun di noi, ch’anchor ne tremo,
     Di tanti amici tuoi sei quasi solo,
     Come udirai, se me ’l comporta il duolo.

Poi che ’l nostro Signor privò la fronte
     Del Ciclopo crudel de la sua luce,
     E che da più d’uno aventato monte
     Salvammo i nostri legni, e ’l nostro Duce:
     Ne fe gittar su ’l mar Tirreno il ponte
     L’infelice destin, che ne conduce,
     Sopra un’isola nota, ov’Eolo regge,
     Ch’à superbi d’Astreo figli dà legge.

Ben che se ’l nostro error non fosse stato,
     Il nostro animo avaro, e ’l nostro torto,
     Ne fe per comun ben l’eterno fato
     Prender per riposar l’Eolio porto.
     Perche de’ venti il Re benigno, e grato
     Al dolce dir del Duce Itaco accorto
     Ne diede la salute universale;
     Ma da noi stessi ci facemmo il male.

Tosto, che ’l Signor nostro il porto prese,
     A riverire andò come prudente
     Il Re de’ venti, e poi fè, che fu inteso
     Co ’l suo dir pien d’affetto, et eloquente
     Il suo infortunio, e mosse il Re cortese
     A fargli un nobilissimo presente,
     Onde tornar potesse à la sua terra,
     E dar quiete à cosi lunga guerra.