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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/492

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In una utre di bue grande, e capace
     I venti tutti il Re de’ venti asconde.
     Sol restar fuore alcun Favonio face,
     Che spira l’aure sue dolci, e seconde.
     D’ogni vento più fiero, e pertinace,
     Che suol col soffio suo far mugghiar l’onde,
     Dentro à quello utre ascoso, e prigioniero
     Fece un presente à l’Itaco guerriero.

Indi gli dice, trattisi in disparte,
     Ch’ogni vento contrario ivi è prigione;
     E se per gire à la sua patria parte,
     Sol l’aure havrà per lui propitie, e buone.
     Ma come doni i legni il tempo, e l’arte
     Al porto de la patria regione,
     Apra quel tergo à fin che i venti chiusi
     Ritornino al lor Re, come son usi.

Ma che non apra le bovine pelli,
     Se dentro al porto pria non è sicuro,
     Che i venti contra lui crudi, e ribelli
     Gli farian grosso il mare, e ’l tempo oscuro.
     Poi che con detti, e modi adorni, e belli
     Rendute à pieno al Re le gratie furo;
     Con tanto don montati in su le navi
     Con l’aure andammo via dolci, e soavi.

Già nove giorni fra il levante, e l’ostro
     Solcato con buon vento haveamo il mare:
     Come il decimo dì di perle, e d’ostro
     L’Aurora ornata à rallegrarne appare,
     Si viene à poco à poco il regno nostro
     Con comune allegrezza à dimostrare.
     E ben tosto l’havriam preso, e goduto,
     Se ’l nostro avaro cor non fosse suto.

Di quei, ch’Ulisse havea su’l legno seco,
     Preso più d’un da troppo avaro affetto,
     Restò del senso interior si cieco,
     Che prese entro al suo cor qualche sospetto,
     Che l’utre, che chiudea Libecchio, e Greco,
     Ch’Ulisse custodia con tal rispetto,
     Non fosse pien di gioie, e di thesoro,
     E farne parte ei non valesse à loro.

Poi che parlato s’hebbero in disparte
     Del duce loro, e de’ creduti inganni,
     E come essi, che in questa, e ’n quella parte
     Eran stati compagni in tanti affanni,
     In tanto don non doveano haver parte,
     Per ristorare i lor passati danni;
     Voler guardar, conchiuser di nascosto
     Quel, che dentro à tal pelle era riposto.

Mentre ch’ Ulisse havea rivolti gli occhi
     À mirar le sue patrie regioni,
     Quei preso il tempo, e tratti fuor gli stocchi,
     De’ venti aprir l’incognite prigioni.
     Subito volar fuor gli Austri, e i Sirocchi,
     I Favonij, i Volturni, e gli Aquiloni.
     Che come si sentir senza governo,
     Fer de l’aria, e del mar proprio un’ inferno.

Poi che quell’aria scorser d’ogn’ intorno,
     E fer con ogni sforzo al mare oltraggio,
     E con nostro terror, periglio, e scorno
     Fer spaventare ogni nocchier più saggio:
     Tutti per fare al lor Signor ritorno
     Drizzar verso occidente il lor viaggio,
     E l’arrnata tornar fecer d’ Ulisse
     Di novo al regno d’Eolo, onde partisse.

Come poi parve al nostro iniquo fato
     Andò l’armata incauta à prender porto
     Nel regno empio di Lamo, ov’ io mandato
     Ambasciador, vi restai quasi morto.
     Quivi regnava un Re fiero, e spietato,
     Che ne fe à suo potere oltraggio, e torto.
     Costui con la sua gente empia, e profana
     Si pasceva di sangue, e carne humana.

À questo Re, ch’Antifate fu detto,
     Come ordinar, con due compagni andai,
     E prima, ch’io giungessi al suo cospetto,
     Venir ver me con tal rabbia il mirai,
     Ch’à fuggir fui per viva forza astretto,
     E con un solo à pena io mi salvai.
     Il terzo, c’hebbe al corso i pie più lenti,
     Al crudel Lestrigon vidi fra denti.