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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/500

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Come la fata ingiuriar si sente,
     Et esser minacciata anchor da l’arme,
     Co’l succo, e co’l velen se ne risente,
     E co’l suo difensor magico carme.
     Drizza le note à l’ Herebo, e la mente,
     E chiama lui, che in sua difesa s’arme.
     E seco per quel fin, ch’ esseguir brama,
     La Notte, e gli altri Dei notturni chiama.

Chiamando Hecate poi tanto alza il grido,
     Che sembra à chi la sente in tutto insana.
     À l’alta voce, al paventoso strido
     Da lei fugge ogni selva, e s’allontana.
     Lascian tutti gli augelli il ramo, e ’l nido,
     Tutte le fiere van fuor de la tana.
     Diviene il monte, e ’l pian pallido, e smorto,
     E tremando il terren geme il suo torto.

L’herba imbiancossi, e venne il fior sanguigno,
     Di goccie, e sangue ogni prato si sparse.
     E prevedendo il danno estremo, il Cigno
     Cantò, tanto il morir vicin gli apparse.
     Ogni serpente, ogni mostro maligno
     Su’l pallido terren venne à mostrarse.
     Restar le sepolture ignude, e sgombre,
     E per l’aere volar mille, e mill’ombre.

Assalì tanto horror, tanto spavento
     Quei, che per lei ferir levar la mano,
     Che mancò in loro il solito ardimento,
     E cercar via da lei fuggir, ma in vano.
     Ch’ella diè fuora intanto il mago accento,
     E non poter fuggir troppo lontano.
     Gl’incantò tutti, e fe restare à un tratto
     Ogn’un come stordito, e stupefatto.

La donna ria, che castigargli intende
     Per la lor minacciata offensione,
     Pian pian lor con la verga il capo offende,
     E dice intanto il magico sermone.
     Subito ogn’uno un’altra forma prende,
     E diviene altri un’ orso, altri un leone,
     Quegli diventa un lupo, e questi un drago,
     Nessun restò nella sua propria imago.

Già fea del ciel la più lucente spera,
     Stando ne l’orizonte in occidente,
     À gli Antipodi l’alba, à noi la sera,
     Per compartir la sua luce egualmente,
     Quando à l’afflitta, e misera mogliera
     Cadde più d’un sospetto ne la mente.
     Già manda i servi, e gli altri del paese
     Incontro al Re con le facelle accese.

Per le propinque selve, ov’era entrato
     Per mala sorte il miser Re Latino
     Le genti, che Saturnia havean lasciato,
     Prendon chi quà, chi là vario camino.
     Ma ben può ricercar questo, e quel lato,
     Che no’l ritrova il popol Saturnino.
     La misera Regina stride, e piange,
     E si graffia le gote, e ’l capel frange.

Poi che tornar la misera no’l vede,
     Ne alcun di quei, ch’andar seco à diporto,
     E di quei, che cercaro, ogn’un fa fede,
     Che no’l seppe trovar vivo, ne morto:
     Al grido, al lagrimar talmente cede,
     Che non solo à le gote, e al crin fa torto,
     Ma vuol darsi co’l ferro in mezzo al petto,
     Per non veder del Re vedovo il letto.

Dapoi che da ministri, e da vassalli
     Le fu il morir più volte prohibito,
     Per gli propinqui suoi silvestri calli
     Cercar volle in persona il suo marito.
     L’accompagnaro assai fanti, e cavalli,
     E di novo cercar tutto quel sito;
     E tanto il duolo in lei ogn’hor rinfresca,
     Che più gustar non puote il sonno, e l’esca.

La moglie di Titon di gigli, e rose
     Sei volte il cielo havea sparso, et adorno;
     Sei volte in occidente il Sol s’ascose,
     E lasciò in questo ciel senz’alma il giorno;
     Et ella anchor per monti, e selve ombrose
     Cercando gia tutto il paese intorno.
     Posarsi intorno al Tebro al fin le piacque,
     Dove co’l pianto accrebbe il fiume, e l’acque.