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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/499

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quartodecimo. 244

Come dal tempo ingiurioso, e rio
     Disperso esser ogn’un la maga scorse,
     Trovato il loco, e ’l tempo, il core aprio,
     E con questa favella al Re si porse.
     Per quel chiaro splendor, ch’al sommo Dio
     Del divin raggio à le tue luci porse,
     Per quel lume divin, che ’l mio cor prese,
     Mostrati à l’amor mio grato, e cortese.

Per quella gran beltà, che in te riluce,
     Ch’oprar può (sendo io Dea) che t’ami, e preghi,
     Consenti, ch’io, che de la maggior luce
     Del ciel son figlia, al mio voler ti pieghi.
     Lascia, che quel, ch’in ciel del giorno è Duce,
     A me sposo, à te genero ti leghi.
     Fà lieta me nel tuo beato letto
     Di quel, ch’Amor può dar, maggior diletto.

Il Re, c’havea rivolto ogni desire
     A la sua moglie valorosa, e bella,
     Con suo gran dispiacer la lasciò dire,
     Poi ruppe in questi accenti la favella.
     Amore, et Himeneo già fermi unire
     Con una nobilissima donzella.
     E ’l dover vuol, come saper ben dei,
     Che tutto l’amor mio sia volto à lei.

Mentre mi serberanno i fati viva
     La bella mia dolcissima Canente,
     Ella sarà il mio bene, e la mia Diva,
     Ella donna sarà della mia mente.
     Prega l’accesa maga, egli la schiva,
     E quanto più il lusinga, men consente.
     Sdegnata al fin del Sol l’accesa prole,
     Dice dentro al suo cor queste parole.

Sprezzami pur, non ti darai mai vanto
     D’havermi ingiuriata, e vilipesa;
     Più non godrai colei, che lodi tanto,
     Che tanto del suo amor t’ha l’alma accesa.
     Io ti vò far provar lo sdegno quanto
     In donna possa innamorata, e offesa.
     Son donna, innamorata, e offesa, e voglio,
     Che provi in parte il muliebre orgoglio.

Due volte ver l’occaso alza le ciglia,
     Due là, ve il giorno acquista il primo lume:
     Tre volte con la verga il tocca. ei piglia
     Già qualche horror del suo mago costume.
     Fugge, e prende fra via gran maraviglia
     D’andar si ratto, e scorge haver le piume.
     Quanto più và, più viene aereo, e snello
     Fin che s’accorge in tutto essere augello.

Il purpureo color, c’havea la vesta,
     L’arme, e ’l cappel con gli ornamenti loro,
     Ne le sue nove penne passa, e resta
     Con più superbo, e natural lavoro.
     La fibbia d’oro anchor quell’or v’inesta,
     E gli fa intorno il collo, e ’l capo d’oro.
     Tutto si vede augello, e non sà come,
     Ne gli resta di Pico altro, che ’l nome.

Come di nova forma essere herede
     S’accorge, più non torna al patrio regno,
     Ne’ boschi và, che più propinqui vede,
     Ne può nel cor placar l’ira, e lo sdegno.
     Co ’l duro rostro à tronchi i rami fiede,
     E dentro più, che può, ferisce il legno.
     La maga fatto questo, opra, che debbia
     Il vento, e ’l Sol far via sparir la nebbia.

Tutti, c’haveano in caccia il Re seguito,
     Poi che ogni pian cercaro, ogni pendice,
     E che fu il nero nuvolo sparito,
     E si scoperse il dì chiaro, e felice,
     Non sepper ritrovar altro in quel sito,
     Se non la trasformante incantatrice.
     Dimandan tutti à lei per cortesia,
     Che dica del lor Re quel, che ne sia.

Dice la fata, e stringesi nel petto,
     Non l’haver visto, e mormora pian piano.
     Tanto che ’l mormorar diè lor sospetto
     Di qualche periglioso incanto, e strano.
     Le dicon ogni oltraggio, ogni difetto,
     Di batterla altri accenna con la mano,
     Minaccia altri co ’l ferro (e non gli giova)
     Di farla allhor morir, se ’l Re non trova.