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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/506

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Si grave error per comportar non sono,
     Et ecco vien co’l suo carro ver terra;
     La tromba seco vien con ogni suono,
     Che suole accender gli animi à la guerra.
     Appresso avampa il ciel, poi s’ode il tuono;
     E nembo con la pioggia il gielo atterra.
     Freme la pioggia, e ’l giel con rabbia, e cade
     Per ammorzar la fiamma, e tanta clade.

Euro, e Favonio, e seco ogni altro vento
     In favor de la Dea ne l’aria venne;
     E poi che ’l soffio lor restar fe spento
     Il foco, un sol la Dea seco ne tenne;
     Co’l cui favor le funi in un momento
     Recise, e in alto mar pinse l’antenne;
     Dove dopo mille onde il mar s’aperse,
     E le fe tutte rimaner sommerse.

La parte, che nel legno era aspra, e dura,
     Ne l’acqua venne delicata, e molle.
     Tanto che quella al fin perdè figura,
     Che le selve gli dier del Frigio colle.
     D’una vaga donzella ha già figura
     La poppa, e sopra l’onde il capo estolle.
     Passan l’antenne in braccia, e in coscie, e in dita
     I remi, e co’l notar le danno aita.

Quel corpo, che tenea nel sen riposte
     Le cose necessarie à la galea,
     E petto, e fianco, e quei banchi son coste,
     Ch’assegnati à gli schiavi il capo havea.
     Le funi, che in più parti eran disposte,
     Come il diverso loro uso chiedea,
     S’uniscon tutte insieme, e in parte vanno,
     Che al novo corpo human le chiome fanno.

Han già congiunte insieme ambe le sponde,
     E chiuso in ogni parte il fianco, e ’l petto.
     Vergini di bellezze alme, e gioconde
     Appaion già nel trasformato aspetto.
     E dove pria temer solean de l’onde,
     E scherzan per diporto, e per diletto.
     E nate già nel duro immobil monte,
     Celebran Ninfe il molle instabil fonte.

Non però si scordar del gran periglio,
     Che corser con Enea per tanto mare.
     E sovente salvar più d’un naviglio,
     Che fu nel tempo rio per affondare.
     È ver, ch’aiuto mai, ne men consiglio
     À le Greche galee non voller dare.
     Sempre in mente serbar l’ire, e l’offese,
     Che fer troppo empi i Greci al lor paese.

Arser sempre dapoi d’ira, e di sdegno
     Contra gli Achei, ne mai lor diero aita;
     E se vider perir qualche lor legno,
     Ne sentir dentro al cor gioia infinita.
     E quando il Re de l’Itacense regno
     Ruppe nel mare, e vi salvò la vita;
     Si rallegrar vederlo afflitto, e smorto,
     E si dolean, che non vi restò morto.

E dove tutto il mondo hebbe cordoglio
     De la d’Alcinoo sventurata nave,
     Quando presso à Corfù divenne un scoglio,
     E pietra fe d’ ogni asse, e d’ogni trave;
     À queste accese anchor d’ira, e d’orgoglio
     Contra le genti Achee non parve grave;
     Anzi si rallegrar co’l Re marino,
     Ch’un sasso immobil fè del mobil pino.

Poi che quel dì la Berecinthia Dea
     Dato hebbe al suo desir l’ultimo fine,
     E che le navi de la selva Idea
     Fur fatte innanzi à lei Ninfe marine,
     Con gran ragion da tutti si tenea,
     Che dovesser cessar tante ruine,
     Che Turno per l’augurio, ch’ ivi apparse,
     Non mai più contra Enea dovesse armarse.

Ma s’era in guisa l’ostinato affetto
     Fatto signor de l’uno, e l’altro core,
     Che combattean per odio, e per dispetto,
     Non più per la consorte, ò per l’amore,
     Non per la dote, non per quel rispetto,
     Che promettea nel Latio il regio honore;
     Ma tenean che disnor fosse à colui,
     Ch’à ceder fosse il primo à l’arme altrui.