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quartodecimo. | 248 |
L’uno, e l’altro ostinato altro non chiede,
Che d’esser vincitor di quella.
Ogn’uno ha più d’un Dio, (nel quale ha fede)
Che in suo favore il suo favor disserra.
Venere finalmente il figlio vede,
Che fa cadere il suo nemico in terra.
La sorte, e Citherea talmente arride
Al valoroso Enea, che Turno uccide.
Dapoi ch’Enea la vita hebbe interdetta
Al Re, che torgli la consorte intese;
E la regia città, ch’Ardea fu detta,
Ricca, e possente già per forza prese;
Perche dapoi mai più farne vendetta
Potesse, fe, che ’l foco empio l’accese.
Fer gli alteri Troiani in ogni loco
De la presa città splendere il foco.
Mentre ch’ardeva Ardea del rogo visto
Fu da Troiani uscire un grande augello,
Non più veduto, macilento, e tristo,
Che nacque di quel misero flagello.
Di cenere, e di fumo il color misto
Fa noto il suo infortunio iniquo, e fello.
Par la voce, il colore, e ’l resto tutto
L’horror d’un luogo preso, arso, e distrutto.
Anchor da l’arso suo paterno nido
Ardea si noma, e s’ange, e si percote
Con l’ali proprie, e duolsi con lo strido,
Poi che non può con le dolenti note.
Già del pietoso Enea la fama, e ’l grido
Del mondo empian le parti più remote;
Acceso il suo valor d’ardente zelo
Non solo il mondo havea, ma anchora il cielo.
L’alta virtù del valoroso Enea
Mostrata in ogni affar s’era di sorte,
Ch’insino à l’odio in tutto estinto havea
Di lei del maggior Dio suora, e consorte.
E già canuto à quella età giungea,
La qual suole esser prossima à la morte.
Quell’hore belle dette eran vicine,
Che ’l dovean por fra l’alme alte, e divine.
Con mille note pie, faconde, e grate
E con modo piacevole, e venusto
Mosse havea Citherea l’alme beate
A fare Enea del regno eterno, e giusto.
E le ginocchie havendo ambe chinate
Al maggior, che nel cielo impera, Augusto;
Serbando in tutto il debito rispetto,
Cosi movere in lui cercò l’affetto.
Ó padre, ò de gli Dei superno Dio,
Ó non mai al cor mio duro, e ritroso,
Deh fatti à me più de l’usato pio,
Fammi di nova gratia il cor gioioso.
Enea, ch’avo ti fe del sangue mio,
Fa degno de l’eterno alto riposo.
Concedi à me rettor santo, e superno,
Ch’io ’l vegga Dio nel regno alto, et eterno.
Fa Re del ciel, che fra i celesti lumi
La stella del mio figlio anchor risplenda.
S’una volta varcò gli Stigij fiumi,
Non mi par d’huopo più, che vi discenda.
Giove consente à lei con gli altri Numi,
Che ’l suo giusto figliuolo al cielo ascenda.
Ringratia ella gli Dei, Giunone, e Giove,
Poi per montar su ’l carro ’l passo move.
Montò su ’l carro, e fe batter le penne
A le colombe candide, e lascive,
E dopo mille ruote in terra venne
A dismontar su le Numicie rive.
Sopra il fiume Numicio il piè ritenne,
Poi mirò l’acque cristalline, e vive.
E chiamato lo Dio, ch’ivi risiede,
Questa con questo dir gratia à lui chiede.
Poi ch’à l’eterno Dio fare immortale
Piace il giusto Troian, che di me nacque;
Per quella deità santa, e fatale
Ti prego, che dal ciel ti si compiacque,
Che tutto quel, ch’egli ha vile, e mortale,
Tu togli via con le tue limpid’acque.
Nel gran favor, che ’l cielo à lui comparte,
Fà, ch’ancho il fonte tuo voglia haver parte.
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