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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/508

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Grato lo Dio Numicio à lei risponde,
     Che in tutto ei darle intende il suo contento.
     Il canuto Troian nel fiume asconde,
     E ’l lava, e ’l monda cento volte, e cento:
     Come il vede purgato esser da l’onde,
     E ’l suo mortal da lui svanito, e spento;
     Con la parte immortal di sopra ascende,
     E purgato à la madre il figlio rende.

La madre Citherea d’odor divino
     Unge il giusto figliuol purgato, e mondo,
     Indi d’ambrosia, e di celeste vino
     Lo ciba, e ’l fa del regno alto, e giocondo.
     Ne sol gli eresse il buon popol Latino
     Altari, e tempij pij, ma tutto il mondo;
     E d’huom mortal religioso, e pio
     Indigete fu poi nomato Dio.

Dapoi che ’l giusto Principe Troiano
     Del regno fatto fu santo, et eletto;
     Dal figlio Ascanio il buon popolo Albano
     Co’l bel regno Latin fu preso, e retto.
     À quello ei diede poi lo scettro in mano,
     Il qual fu da le selve Silvio detto;
     Silvio à colui lasciò le regie some,
     Che del primo Latin rinovò il nome.

Dopo questo Latin lo scettro tenne
     Epito de l’Ausonio almo paese.
     Dopo l’imperio in man di Capi venne,
     Da cui l’illustre Capeto discese.
     Da Capeto poi quegli il regno ottenne,
     Dal qual l’altiero Tebro il nome prese;
     Di Tiberin, che diede il nome à l’acque,
     Remulo prima, e dopo Acreta nacque.

Remulo di più tempo, perche volse
     Giove imitar co’l folgore non vero,
     Poi ch’un folgor mortal nel petto il colse,
     Al più saggio fratel lasciò l’impero.
     Aventin dopò lui lo scettro tolse,
     Che poi che l’alma al regno afflitto, e nero
     Rendè, dove fondò la regia sede
     Sepolto, al nobil monte il nome diede.

Proca di governar poscia hebbe il pondo
     I padri Albani, e ’l popol Palatino.
     Sotto questo gran Re comparse al mondo
     Pomona nel bel regno almo Latino;
     Di viso si leggiadro, e si giocondo,
     Di spirto si svegliato, e si divino,
     Che i suoi bei modi, e i suoi santi costumi
     Tutti preser d’amor gli agresti Numi.

Fra l’Amadriade Dee, che de le piante
     Cura tenean nel lieto Ausonio seno,
     Non era alcuna, che passasse avante
     Nel cultivarle, e custodire à pieno
     À questa: le cui gratie illustri, e sante
     Ogni Fauno, ogni Dio preser terreno.
     Cercò ne gli horti suoi con ogni cura
     Di dar con l’arte aiuto à la natura.

Pomona à pomi havea rivolto tutto
     (Onde il nome prendea) lo studio, e ’l core.
     Cercava migliorar questo, e quel frutto
     Di beltà, di grandezza, e di sapore.
     L’uno il monte chiedea caldo, et asciutto,
     L’altro la valle, e ’l ben temprato humore.
     Et ella disponea co’l frutto il sito,
     E dava aiuto al lor proprio appetito.

Ella non ama il bosco, il fiume, ò ’l lago,
     Non ama alcun diletto da donzella;
     Non porta il dardo in man, non ha il cor vago
     Di dar la caccia à questa fera, ò à quella;
     Non lo specchio la sua non guarda imago,
     Per farsi più mirabile, e più bella;
     Ma suol le sue bellezze altere, e conte
     Senza studio purgar co ’l puro fonte.

Poi se ne va ne suoi giardini, e in mano
     In vece de lo stral la falce porta.
     E se spargendo và troppo lontano
     Qualche arbore i suoi rami, ella gli accorta.
     E fa, che ’l tronco il suo vigore in vano
     Per gli distesi rami non trasporta,
     À fin che ’l succo suo propinquo, ò puro
     Più dolce faccia il frutto, e più maturo.