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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/52

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À i piu teneri rami al fin s’appiglia,
     E d’ ira accesa à piu poter gli schianta,
     Per liberar l’ incarcerata figlia
     Da l’ indiscreto legno, che l’ammanta.
     Fa del suo sangue la terra vermiglia
     Ogni ferita, e lacerata pianta.
     E dice, non troncar madre, se m’ami.
     Che laceri il mio corpo in questi rami.

La scorza in tanto tutte le circonda,
     E toglie à loro il volto, e le parole;
     Il pianto nò, che più che mai n’abonda
     L’arbor, c’hor sol col lagrimar si dole,
     Ben ch’al fin perdon la forma de l’onda
     Le lagrime indurate à più d’un Sole.
     Esse hor son pioppi, ambre i disfatti lumi,
     Queste adornan le donne, e quelli fiumi.

A questo novo, e mostruoso fatto
     Il Re de la Liguria fu presente,
     Dal grande amore à quel sepolcro tratto,
     Che porta al folgorato suo parente.
     Ma l’havea più, che per lo sangue fatto,
     Che gli era giunto d’animo, e di mente,
     E lo stimò sì generoso, e degno,
     Ch’abbandonò per lagrimarlo il regno.

Più folti i boschi per li novi rami
     De le meste sorelle di Fetonte,
     Ripieni havea di dolorosi, e grami
     Pianti, e lamenti, e ’l fiume, e ’l piano, e ’l monte:
     E vedendo gl’ insoliti legami,
     Che coprian lor la dolorosa fronte,
     Credo, ch’invidia gli toccasse il core,
     Che fosser fuor del solito dolore.

Tosto altro suon la mesta voce rende,
     Di bianche piume poi coprir si vede,
     Il collo se gli allunga, e si distende,
     Lega rossa giuntura i diti, e’l piede.
     La bocca un rostro non agguzza prende,
     L’ala asconde la mano, e non si vede.
     Cigno havea nome il Re Ligure, e quello
     Nome ritenne essendo fatto augello.

In mente anchor quanto già nocque, serra
À Fetonte à spiegar troppo alto l’ale,
     Però non molto alzarsi osa da terra,
     Che teme Giove, e ’l suo fulmineo strale.
     Sol fra paludi egli s’aggira, et erra,
     E per non cader giù, poco alto sale.
     Habita fiumi, e laghi, et ogni loco,
     Che pare à lui, che sia contrario al foco.

Squalido il padre di Fetonte intanto,
     Come morto cader del carro il mira,
     Odia il giorno, e se stesso, e ’l regio ammanto,
     E senza il suo splendor piange, e sospira:
     Ne basta, che si doni in preda al pianto,
     Che dal pianto si dona in preda à l’ ira,
     E nega in volto irato, e furibondo
     D’esser più scorta de la luce al mondo.

Troppo è stato inquieto il viver mio
     Dal secolo primier, ch’ incominciai,
     C’havendo al mondo di giovar desio,
     Vagato son senza posarmi mai,
     Poi, ch’altro honor di ciò trar non poss’io,
     Me ne starò ne’ miei tormenti, e guai.
     Trovisi un’ altro duca, un’altra scorta,
     Che guidi il carro, che la luce porta.

S’alcun non v’è sì coraggioso, e forte,
     Guidilo il Re de’ folgori, e de’ lampi,
     Ch’allhor saprà quel, che ’l mio carro importe,
     S’avien quel, ch’io non credo, che ne scampi.
     Allhor saprà, che non merta la morte
     Chi guida i miei cavalli, anchor ch’ inciampi,
      À cagion, che talhor lanciar s’arresti
     Lo stral, che rende i padri orbati, e mesti.

Mentre che ’l Sol così s’affligge, e dole,
     Tutti i celesti Dei gli stanno intorno;
     E pregan lui con supplici parole,
     Che renda il mondo del suo lume adorno:
     Che vede ben, che l’universa mole
     Fia tenebrosa, se le toglie il giorno.
     Giove si scusa, e prega, indi minaccia,
     Non però sì, che più sdegnato il faccia.