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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/535

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L’huom può qualche animal nocivo, e strano
     Uccider, perch’altrui non faccia scorno:
     Ma non faccia di lui poi cibo humano;
     Fiaccare al suo furor gli basti il corno.
     À lo scolar, che poi fu Re Romano,
     Questo fè udir Pithagora quel giorno.
     Molte altre cose poi co’l tempo apprese,
     E tornò senza pari à suo paese.

Pien di filosofia la lingua, e ’l petto
     Tornossi Numa al sen patrio Sabino:
     E con lo studio poi tanto perfetto
     Si fece, e co’l suo ingegno alto, e divino,
     Che Re fu dal Roman popolo eletto
     Poi ch’andò in cielo il fondator Quirino.
     Et ei, c’havea à giovar l’animo inteso,
     Accettò di buon cor lo scettro, e ’l peso.

De la superba Roma il Re secondo
     Saggia una Ninfa Egeria hebbe consorte,
     Ch’aiuto à sopportar si grave pondo
     Gli diè co’l profetar la fatal sorte.
     E ’l favor de le Muse anchor secondo
     Havendo in tanto imperio, ei fè di sorte,
     Ch’à l’aurea pace, al divin culto, e vero
     Seppe un popol ridur cotanto altero.

Poi che ben quarant’anni hebbe regnato,
     Lasciò con grande honor la vita, e ’l regno,
     E fu dal popol pianto, e dal Senato;
     Passar nel pianger lui le donne il segno.
     Fu al santo rogo, et al sepolcro dato
     Con l’honor, che potea Roma, più degno.
     Su’l Tebro intanto, e in tutti i sette colli
     Occhi non si vedeano se non molli.

La moglie Egeria oscura il volto, e ’l manto,
     Fu per venir per la gran doglia insana:
     Non fece udir ne’ sette colli il pianto,
     Ma ne la valle Aricia di Diana.
     Dove impedì co’l grido il rito santo
     À l’altar de la Dea casta Silvana.
     Cercar le Ninfe pie di torle il tutto,
     Per varij essempi, e vie, ma senza frutto.

Ma più d’ogn’un quel, c’ ha in custodia il tempio,
     Figliuol del gran Teseo, le dà conforto.
     Non è già l’infortunio tuo tant’empio,
     Poi che ’l tuo Re con tanto honore è morto.
     Se ’l più crudo d’altrui sapessi essempio,
     Non chiameresti il tuo tanto gran torto.
     Ti placheria più d’un malvagio, e rio
     Disdetto altrui, ma più d’ogn’altro il mio.

Hippolito io già fui, di Teseo nacqui,
     E come i fati havean già stabilito,
     À la matrigna mia soverchio piacqui,
     E cercò trarmi à l’amoroso invito:
     Ma mosso dal dover mai non compiacqui
     Al suo non ragionevole appetito.
     Fu la matrigna mia di colei prole,
     Ch’ in Creta un toro amò, figlia del Sole.

L’accesa mia matrigna non soggiorna,
     Ma mossa da lo sdegno, ò dal timore,
     Come il mio padre al regio albergo torna,
     Volta tutto al contrario il tristo amore;
     E piange, e la bugia colora, e adorna,
     Ch’io la volli forzar, torle l’honore.
     Credulo il padre il crede, e ’l fido figlio
     Scaccia da la città co’l crudo essiglio.

Ne solo il figliuol suo scaccia del regno,
     Ma con prece nemica alza la voce
     Al ciel, che sopra me mandi il suo sdegno;
     E con l’empia bestemmia anchor mi noce.
     Io d’andare in Trezena havea disegno,
     E gia su’l carro mio presto, e veloce.
     E già vedea Corinto, e ’l mar vicino
     Quando m’avenne un più crudo destino.

Parmi mentre, ch’io scorro intorno il lito,
     Ch’un globo alto nel mar cresca, e sormonte;
     Poi veggio di quel globo essere uscito
     Si grande un bue marin, ch’assembra un monte;
     E dando fuor l’horrendo alto muggito,
     Le corna al dritto mio volta, e la fronte;
     E quanto più à la terra s’ avicina,
     Tanto minaccia à noi maggior ruina.