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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/536

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À tutti quelli entrò per l’ossa il gielo,
     Che l’empia mia fortuna havean seguita.
     S’arricciò à tutti ogni capello, e pelo,
     Eccetto à me, che in odio havea la vita.
     Ch’ io fermi ’l carro, alzan le strida al cielo,
     Che voglion fare à piè l’aspra salita;
     Dicon, ch’al bue marin sarà conteso
     Portar per l’aspro monte il suo gran peso.

Volgono gli occhi i miei cavalli intanto
     Ver dove tanto mare il pesce ingombra,
     E quando al cielo alzarsi veggon tanto,
     L’orecchie ogni corsiero alza, e s’adombra.
     I miei raddoppian tosto il grido, e ’l pianto,
     Che scorgon, che ’l paese il carro sgombra
     Per lo camin più periglioso, e strano,
     E che i cavalli à me sforzan la mano.

Dà intanto il carro in un troncon d’intoppo,
     E tutto eccol tremar, tutto si scuote.
     Seguono i destrier fieri il lor galoppo,
     Fin che fan rompere una de le ruote.
     Tal che nel ribaltarsi il carro troppo
     In terra io dò l’impallidite gote.
     Il carro passò sopra essendo sotto,
     E tutto mi lasciò storpiato, e rotto.

Le redine m’havean l’un braccio attorto,
     E mi vedea tirar fra sassi, e spine:
     Tal che per lo camin malvagio, e torto
     Caddi in precipitose alte ruine.
     Dove restato al fin del tutto morto,
     Lo spirto andò fra l’anime tapine:
     E sanguigno la man, l’anca, e la fronte
     Nel fiume si lavò di Flegetonte.

Rotto il corpo restò, sanguigno, e brutto,
     Da tronchi, e sassi lacerato, e tolto.
     Le membra interne sparse eran per tutto,
     E non si discernea dal piede il volto.
     Non sparger dunque in tanta copia il lutto,
     Tu, che con tanto honor Numa hai sepolto:
     Che infortunio non è soverchio rio,
     Egeria il tuo, s’havrai riguardo al mio.

Ma ’l medico divin, figliuol d’Apollo,
     Detto Esculapio, per far noto al mondo,
     Di quanta arte, et ingegno il ciel dotollo,
     Ne venne ov’ io giaceami immobil pondo:
     E trovato ogni mio membro, appiccollo
     Co’l succo al luogo proprio; e poi secondo
     Si richiedea, tant’herbe pose in opra,
     Che fe lo spirto mio ritornar sopra.

Ad onta di Plutone, e de l’inferno
     Con l’arte, e l’herbe ei seppe oprarsi in modo,
     Che co’l mio corpo il mio spirito interno
     Legò con novo, e indissolubil nodo.
     Perche mi fece poi Diana eterno,
     Per farmi in questa valle, ch’io mi godo,
     Guardia al suo tempio: e, come piacque à lei,
     Uno io son quì de’ suoi silvestri Dei.

Perch’io non generassi invidia altrui
     Per tanto don, cangiommi il volto, e ’l nome;
     E disse, (dove Hippolito io già fui)
     Vò, che da questo in poi Virbio ti nome.
     Elesse poi fra molti tempij sui
     Questo, dov’ io sacrificassi, come
     Tu puoi veder, ben c’hebbe dubbio il core,
     Di darmi ò in Creta, ò ’n Delo un tanto honore.

Cosi per consolar l’afflitta Diva
     Il figliuol di Teseo mosse l’accento:
     Ma del gran sposo suo la Ninfa priva,
     Torsi non può dal solito lamento.
     Diana al fin, per mantenerla viva,
     Con nome eterno fece in un momento
     Il corpo suo stillarsi à piè del monte,
     In un, ch’anc’hoggi v’è, perpetuo fonte.

Tutte à fatto stupir le Dee Latine,
     Ne Virbio men stupor dentro al cor serra
     Di quel, che vide già ne le Tarquine
     Valli formarsi un’ huom di pura terra.
     Ch’ei non credette mai veder tal fine
     D’una gleba fatal, ch’era sotterra.
     Il vomero scoprilla, ella si mosse
     Da se medesma: egli à mirar fermosse.