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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/66

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Il buon pastor, che raddoppiarsi udio
     Il premio di colui, che il furto scopre,
     (Disse) in quei monti più silvosi, ch’io
     T’addito, il gregge tuo s’asconde, e cuopre,
     Quivi starà, fin che ’l notturno oblio
     Ne’ fantastichi sogni il senso adopre,
     Ma come al sonno ogn’un la notte chiame,
     Darà la preda al suo paese infame.

Rise Mercurio, e disse, ahi mancatore
     Di fe, questo è ’l silentio, c’ hai promesso,
     Che non credendo me l’ involatore,
     Hai me medesmo accusato à me stesso.
     E tratto il primo suo sembiante fuore,
     Disse; Guarda, e conosci, s’ io son desso,
     Dicesti, che ’l direbbe un sasso pria,
     Ma non vo, c’habbi detta la bugia.

Nero il fa divenir, qual è un carbone,
     E sì l’ indura poi, ch’un sasso fallo.
     Quel sasso il fa, che chiamiam paragone,
     Che vero saggio dà d’ogni metallo.
     Là dove poi mutò conditione,
     Nessun poi tradì più, non fe più fallo,
     Disse poi sempre il ver, per quel ch’io veggio,
     Per non si trasformar di male in peggio.

Lasciato Apollo il suono, l’occhio porge
     Dove il gregge pascea, ne vede i buoi,
     Dal luogo, ove sedea, subito sorge,
     E cerca prima tutti i paschi suoi,
     Cerca poscia gli strani, e nulla scorge,
     Ben che il tutto trovò poco dapoi.
     Seppe il ladro chi fosse, e dove stesse,
     Ma non so ritrovar chi gliel dicesse.

Il corvo non fu già, c’havea giurato
     Nova non dar mai più buona, ne rea,
     Poi che ’l bianco mantel gli fu cangiato,
     Per quella donna, ch’accusata havea,
     Et oltre à questo, Appollo havea lasciato,
     Perche sbandito, e misero il vedea.
     Che ogni vil servo, perche non n’acquista,
     Lascia il padron ne la fortuna trista.

Se ben Febo di Dio fatto è pastore,
     Non però s’è scordato il trar de l’arco,
     Anchor ch’un cappio del nervo habbia fuore
     De la sua cocca, e stia disteso, e scarco,
     Ma già l’ incurva con rabbia, e furore
     E tira il nervo in sù, fin che l’ ha carco:
     Trova Mercurio, e in lui drizza lo sguardo,
     E tende l’occhio, la balestra, e ’l dardo.

Sì cruda voglia di ferir l’assale,
     Che gli fa nel tirar perder la mira,
     E manda alquanto à man destra lo strale,
     Ond’egli da man manca si ritira,
     E par, che dica al dardo, che fa male,
     Se non si drizza ov’egli accenna, e mira.
     Ma dove ei si drizzò, d’andar non resta,
     Per cenni de la mano, ò de la testa.

Veduto il primo colpo senza effetto,
     À l’arcier novo dardo inviar parve.
     Ma Mercurio cangiò subito aspetto,
     E si fece invisibile, e disparve.
     Come un’ aer si fe purgato, e netto,
     E di lui più nulla sembianza apparve.
     Io non saprei ben dir, che forma havesse,
     Che non soffrì, ch’allhora altri il vedesse.

Apollo si raggira, e più non vede
     L’auttor de l’altrui danno, e del suo scorno,
     E gira, e move indarno l’occhio, e ’l piede,
     E cerca con gran studio quel contorno,
     Ben che Mercurio al fin visibil riede,
     E prega, e stagli con tai mezzi intorno,
     Che fan la pace, e rende il tolto armento,
     E fallo d’un bel don di lui contento.

Hebbe Mercurio un perspicace ingegno,
     E poco prima ritrovato havea
     Un’ istrumento più dolce, e più degno
     Di quel, che Apollo allhora usar solea.
     Questo era un cavo, e ben disposto legno,
     Che con nervi ineguali il suon rendea,
     Dando un l’accento acuto, un’ altro il grave,
     Faceano un suono amabile, e soave.