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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/68

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Poi che nel proprio albergo si coperse
     Ciascuna de le Vergini, e spariro,
     E Mercurio perdè la vista d’Herse,
     Ardente, più che mai crebbe il disiro,
     Tosto à la terra l’animo converse,
     E non si curò più d’andare in giro,
     Ma per fil dritto à terra se ne venne
     Battendo à più poter l’aurate penne.

Con quel furor, che caccia un raggio ardente
     Il fuoco, che l’ infiamma, e ’l fa feroce,
     Che venga tratto da torre eminente,
     Che sibila, e vien giù ratto, e veloce:
     Tal Mercurio à l’ ingiù cacciar si sente
     Da quello ardor, che sì l’accende, e coce.
     Giunto per comparir non si trasforma,
     Tal’ è la fede, c’ ha ne la sua forma.

Se bene il suo divin sembiante è tale,
     Che mirabile appar parte per parte,
     Pur rassetta il cappel, rassetta l’ale,
     E cerca d’aiutarsi anchor con l’arte,
     Aggiusta i serpi, e fa pendere eguale
     La veste; e con tal studio la comparte,
     Che mostra tutto il bel del suo lavoro,
     E tutto l’ornamento, e tutto l’oro.

Accommodato il suo celeste ammanto,
     Al palazzo regal ratto s’invia,
     Affretta il passo assai, non però tanto,
     Ch’à la sua dignità biasmevol sia
     Stanno in tre stanze, l’una à l’altra à canto
     Le tre sorelle come in compagnia,
     Con ornamento assai superbo, e quale
     È condecente al lor stato regale.

Con degno, e pretioso adornamento
     Pandroso ha il destro, Aglauro ha il manco lato,
     L’altra più bella ha quello appartamento,
     Ch’ in mezzo à l’uno, e l’altro è collocato.
     Visto Mercurio Aglauro, hebbe ardimento
     Di dir, che l’ informasse del suo stato,
     Chi fosse, e dove andasse, e d’altre cose.
     À cui l’accorto Dio così rispose.

Quel, che volando l’ imbasciate porto,
     Son del gran padre mio mio padre è Giove.
     L’almo viso leggiardo, c’hoggi ho scorto
     Ne la sorella tua, ver lei mi move.
     Qui dentro Herse mi chiama, e ti conforto,
     Ch’à pormi in gratia à lei, t’adopri, e prove.
     Che vedi, se ciò fai, parente, e zia
     De la prole sarai celeste mia.

I cupidi occhi, onde prima scoprio
     Quel, ch’ in custodia à lei Minerva diede,
     Ferma nel bello innamorato Dio
     Aglauro, e ben tutto il contempla, e vede,
     Poi dando speme al suo caldo desio,
     Tutto quel disse far, ch’ei brama, e chiede,
     E dimandato un gran tesor, gli disse,
     Ch’allhor le desse luogo, e si partisse.

Guardò con torto, e con crudele aspetto
     Aglauro allhor la bellicosa Dea,
     E tal sospir diè fuor, che tremò il petto,
     E lo scudo, ch’à lui giunto tenea,
     Vede, ch’oltra à l’ ingiuria, oltre al dispetto,
     Ch’à scoprir quel dragon fatto l’havea,
     Per prezzo scelerata, avara, e fella
     Cerca vender l’honor de la sorella.

Più la sdegnata Dea non può soffrire
     Costei, che sì malefica comprende,
     Ne men del suo licentioso ardire,
     Biasma quest’altro error, che far intende.
     Per l’uno, e l’altro suo fallo punire
     Verso l’afflitta Invidia il camin prende,
     Che vuol che da l’ Invidia sia punita
     Aglauro, troppo avara, e troppo ardita.

Una stretta, selvaggia, e scura valle
     Ne la gelata Scithia si nasconde,
     Fra monti, che tant’alte hanno le spalle,
     Che ’l ciel la pioggia sua mai non v’infonde:
     Dov’ è tanto intricato, e folto il calle
     Al Sol, da spessi rami, arbori, e fronde,
     Che non sol Febo mai non vi penetra,
     Ma à mezzo giorno è spaventosa, e tetra.