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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/69

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In questa valle, nel più folto bosco
     Sta cavata un grotta, assai più scura,
     Che sempre ha il ciel caliginoso, e fosco,
     Che tutte ha muffe le mal poste mura.
     In questo infame albergo, e pien di tosco
     La magra Invidia si ripara, e tura.
     Quei, che son sempre seco in casa, e fuore,
     Son la miseria, il dispregio, e ’l dolore.

Quivi drizzò la Dea prudente, e casta
     Il suo santo vestigio, e ’l santo piede.
     Giunta percote la porta con l’hasta,
     E quella al primo picchio s’apre, e cede;
     E, che vipera, et aspido, e cerasta
     Magna l’ Invidia à la sua mensa, vede;
     E, che la pascon carni di serpenti,
     De’ brutti vitij suoi degni alimenti.

Non si degna la Dea dentro à la porta
     Porre il suo altero, e venerabil passo,
     Anzi tal vista, e l’odio, che le porta,
     Le fa l’occhio tener curvato, e basso.
     L’ Invidia, che la Dea de l’arme ha scorta,
     Mormora, e move il piede afflitto, e lasso:
     Lascia mezzo mangiate hidre, e lacerti,
     E va con passi inutili, et inerti.

Come meglio la Dea superba mira
     D’armi, e di ricche vesti adorna, e bella,
     Dal profondo del cor geme, e sospira
     Vedendo à se sì povera gonnella.
     Le ciglia hirsute, mai dritte non gira,
     Se guarda in questa parte, ha mira in quella,
     Pallido il volto, il corpo ha macilente,
     E mal disposto, e rugginoso il dente.

È tutto fele amaro il core, e ’l petto,
     La lingua è infusa d’un venen, ch’ uccide.
     Ciò, che l’esce di bocca, è tutto infetto:
     Avelena col fiato, e mai non ride,
     Se non talhor, che prende in gran diletto,
     S’un per troppo dolor languisce, e stride.
     L’occhio non dorme mai, ma sempre geme,
     Tanto il gioir altrui l’affligge, e preme.

Allhor si strugge, si consuma, e pena,
     Che felice qualchun viver comprende.
     E questo è il suo supplicio, e la sua pena,
     Che se non noce à lui, se stessa offende.
     Sempre cerca por mal, sempre avelena
     Qualche emol suo, fin che infelice il rende.
     Tien per non la veder la fronte bassa
     Minerva, e tosto la risolve, e lassa.

La temeraria figlia Aglauro detta
     Del Re d’Athene à ritrovar n’andrai,
     E l’alma sua de la tua peste infetta,
     Nel modo più pestifero, che sai.
     Percote l’hasta in terra, e parte in fretta,
     E lascia lei ne i suoi continui guai,
     Che mormora, s’affligge, e si tormenta
     D’haver à far la Dea di ciò contenta.

Prende una verga in man di spini avolta,
     E vola al danno altrui pronta, e veloce.
     La circonda una nebbia oscura, e folta,
     Che fiori, et herbe, e piante abbrucia, e coce.
     Ovunque il viso suo noioso volta,
     Avelena, fa nausa, infetta, e noce.
     Corrompe le città, gli huomini attosca,
     E fa, ch’un se medesmo non conosca.

Struggendosi l’ Invidia affretta il piede,
     Giunge ad Athene, e sta mirando alquanto
     Quel popol, che in ricchezza ogni altro eccede
     E tutto il trova in gioco, in festa, e in canto.
     Tiene à pena le lagrime, che vede,
     Che cosa ivi non è degna di pianto.
     Ver la casa del Re la strada piglia,
     Per farlo poco lieto de la figlia.

Con le man rugginose, più, che puote,
     Batte per far venir pallide, e smorte
     D’Aglauro le vermiglie, e bianche gote,
     Che cosi belle, e così grate ha scorte.
     Con la spinosa poi verga percote
     Quattro, e sei volte lei, più che può forte.
     E tal virtute han la sua verga, e palma,
     Che non nocendo al corpo affliggon l’alma.